Grande Torino, il rito del 4 maggio e la sua lezione

Se si ricorda Superga con tanta forza 75 anni dopo è per ciò che ancora ci comunica quella squadra

I riti e i rituali servono da sempre all’uomo per imparare qualcosa di se stesso e individuare il proprio posto nel mondo o, per lo meno, una zona di appartenenza. Un rito consolida una comunità ed esegue i lavori di manutenzione della memoria, il più indispensabile degli ingranaggi del vivere civile. È questa la ragione per la quale oggi, settantacinque anni dopo, si ricorda la tragedia di Superga, si celebrano gli uomini del Grande Torino e quelli che il destino ha accomunato nella sciagura, come il nostro fondatore e primo direttore Renato Casalbore, che aveva fatto nascere Tuttosport solo quattro anni prima in quel toccante fermento post bellico in cui tutti i sogni sembravano realizzabili.
Se qualcuno si interrogasse ancora sul perché della potenza del 4 maggio; sul come possa coinvolgere un numero progressivamente sempre più alto di persone che del Grande Torino hanno solo sentito parlare; sul motivo che spinge tutti gli avversari al più rispettoso e sincero degli inchini; ecco, le risposte vanno cercate nei significati e negli effetti del rito del 4 maggio, che vanno oltre il ricordare ai tifosi granata l’unicità della loro fede.

Gli anni del Paese in rinascita

Commemorare la tragedia di Superga ci insegna a onorare i più forti senza invidia e dietrologia, rimette il rispetto in cima alla piramide dei sentimenti e ci racconta storie di uomini sportivi e non di sportivi rockstar, insomma ci riporta indietro agli Anni del Grande Torino, quando il Paese rinasceva, anche grazie allo sport, sotto altri auspici e con altri valori. Valori che oggi ritroviamo sempre più spesso nella storia, sempre meno nella cronaca. La nostalgia che pervade il rito del 4 maggio affonda lì le sue radici, nei racconti dei nonni ai nipoti che scoprono una delle più belle favole del mondo; la generazione che esplora il mondo con i video di Tik Tok, incantata da sentimenti che non riescono a viaggiare sui binari digitali.

Il ricordo del Grande Torino

I riti servono, servono eccome, per evitare di dimenticare, per passarci il testimone anno dopo anno. E oggi ne sono passati 75 senza che il mito del Grande Torino sia stato scalfito dal tempo ed è importante, nell’ebrezza retorica, non scordare cos’era quella squadra, lasciandosi inghiottire dall’insidioso gorgo dei paragoni, viene da dire il Real Madrid di Zidane, lo United di Ferguson o il Barcellona di Guardiola. Era una squadra che in ogni ruolo aveva il migliore o uno dei primi tre al mondo. Era una squadra capitanata da uno dei calciatori più forti di tutti i tempi, penalizzato nelle classificazioni enciclopediche dal fatto che in pochi lo abbiano visto e in molti ne abbiano solo sentito parlare. E forse anche giusto così perché Valentino Mazzola, l’uomo che solo tirandosi su le maniche atterriva l’avversario e gasava i suoi, è di una categoria a parte, come i suoi compagni. Ha ereditato la sua fascia Alessandro Buongiorno, ragazzo cresciuto nel Toro ed erudito di Grande Torino, segno che quelle radici continuano a produrre frutti, nonostante i tanti rami rinsecchiti dalla mediocrità che come un parassita ha intaccato l’albero genealogico granata.

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