Morse, dagli Usa alla Hall of Fame italiana: "Io, americano italianofilo"

La leggenda di Varese diventa il primo giocatore statunitense ad entrare nell'arca della gloria azzurra
Morse, dagli Usa alla Hall of Fame italiana: "Io, americano italianofilo"

Quando il basket era in bianco e nero e la squadra aveva uno straniero senza possibilità di cambiarlo. Quando non c’era bisogno di volare e schiacciare sempre per farti amare. Allora, inizio Anni 70, un americano dai lunghi capelli biondi divenne leggenda in Italia. Campione e faro in una squadra mitologica, da 10 finali di Coppa Campioni, oggi Eurolega, vincendone 5. Bob Morse l’americano innamorato dell’Italia, è atterrato a Malpensa e domenica 18 sarà celebrato a Torino durante la finale di Coppa Italia, insieme con il compagno di trionfi a Varese, Dino Meneghin.

Morse da Pennsylvania, riceverà il riconoscimento della Hall of Fame del basket italiano ottenuto nel 2023. Bob, 3 Coppa Campioni, 1 Intercontinentale, 1 Coppa Coppe, 4 scudetti, 1 Coppa Italia. Morse: 27,8 punti con 8,9 rimbalzi di media in Italia: 60,9% al tiro dal campo, 85,9% liberi e 54,5% da tre che ha potuto utilizzare solo a fine carriera. Lungo che ha anticipato i tempi con il suo tiro da fuori immarcabile, ma giocando con la squadra, difendeva.

Morse, si fermerà un po’ in Italia: Reggio Emlia, Varese dove è cittadino onorario e poi Torino.
«Ho organizzato un piccolo tour con 4 amici appassionati di basket. Sarà un’indigestione, andremo anche domenica a vedere Varese e poi Torino per una settimana. Ma una giornata la trascorreremo nelle Langhe»

Che cosa significa per lei essere stato introdotto nella Hall of Fame italiana?
«È il più grande onore della carriera, anche se arriva tanti anni dopo, è un’emozione bellissima. Ho chiesto a legabasket quanti siano stati gli americani in Italia, mi hanno detto circa 1.600. È un grandissimo onore essere il primo a ricevere il riconoscimento. Certo, ho avuto una carriera con tanti successi nella squadra più forte e visibile. Mi scuso se mi sente rifiatare ma sono sulla cyclette».

A 73 anni ha ancora voglia di faticare. Ricorda il suo arrivo in Italia e la prima impressione?
«Nel 1972, a maggio per una prova. Coach Aza Nikolic voleva valutare se cambiare Manuel Raga in campionato. Mi venne a prendere la famiglia Gualco e mi portò sul lago a Varese. Ne fui conquistato. Io sono della campagna in Pennsylvania. Ricordo anche la prima partita giocata, a Loano in un torneo, estivo, appena atterrato, contro una selezione del campionato, allenata da Sandro Gamba. All’aperto, mi sembrava di essere tornato al cortile, ai campetti da ragazzino. Poi il debutto in campionato ad Asti e soprattutto quello a Varese. C’era grande attesa, il pubblico amava Raga. E Morse cosa fa? Subito 0-6 al tiro, troppo nervoso. Il pubblico scandiva il nome di Raga. Ma mi ripresi, chiusi la partita con 45 punti e una serie di 10-10 da fuori. E il pubblico cominciò a pensare che l’americano non era male».

Il basket di oggi le piace?
«Si e no, mi piacciono le prodezze individuali, però il gioco di squadra Nba e forse in misura minore in Europa, soffre. Si avverte la mancanza di una squadra che rimane insieme per molto tempo. Cambiano i giocatori, troppo. Nei primi anni miei c’era uno straniero e non si poteva cambiare per nessun motivo. Si ruppe un lungo americano e una squadra retrocesse, poi le regole cambiarono».

Tra i tanti scelga il ricordo più bello della sua carriera.
«Cito sempre la finale di Coppa Campioni 1975 ad Anversa. Partimmo sfavoriti. Se ricordo bene un giornale scrisse che la speranza era non prenderne 25 dal Real Madrid, perché ci mancava Dino Meneghin, fuori con il braccio rotto. Invece ho tirato fuori una partita unica, 29 punti difendendo anche sul loro centro. E Sergio Rizzi entrò e ne mise 13 nel secondo tempo».

Lei è così legato al nostro Paese che si è messo a insegnare la nostra lingua, prendendo la terza laurea, dopo Biologia al college e un master in business. Ma all’arrivo non parlava italiano.
«Conoscevo una manciata di parole, non l’avevo studiata, ma mi aiutò la conoscenza del francese, studiato al liceo e all’università. La struttura grammaticale è simile. La decisione di insegnare l’ho maturata nel corso degli anni. Dopo il basket ho fatto altri lavori e poi mi sono ritrovato dirigente in una grande azienda di informatica. Ma presto ho capito che non mi appassionava. Avevo già cominciato a insegnare italiano in corsi serali. Tornai all’università 2 anni per un master in italiano. E ho trovato lavoro per nove anni al Saint Mary’s College. Sono in pensione da un po’, vivo a Portland, ma continuo a insegnare alle serali».

Ha bisogno di passioni.
«Ne ho avute alcune: il basket giocato, poi per l’Italia e gli italiani: sono un italianofilo. Però a differenza di molti americani, il mio amore, la simpatia per l’Italia è ricambiato dai tifosi di basket, dagli amici e conoscenti italiani. È bellissimo. Arrivo e sono a casa».
Se avesse giocato in questi anni non avrebbe avuto bisogno di lavorare poi. Guadagni diversi
«Però io sono molto contento della carriera fatta. Giocare a basket mi ha cambiato la vita. Il migliore amico che ho a Portland è un italiano ex giocatore di basket a Forlì: si chiama Vincenzo Nunzi ed è chef a Portland. Ci siamo visti per caso: sono entrato nel suo ristorante ho visto questo uomo alto 2 metri e 6. Ci avevo giocato contro anche una volta, in torneo nella splendida piazza medievale di Todi. Mi riconobbe e mi venne incontro».

Con Dino Meneghin un legame forte, cementato in una squadra che era un corpo unico.
«L’ho sentito l’altro giorno, ci vediamo a Reggio per la presentazione del documentario su di lui, che ho già visto ed è molto bello. Dino è un grande personaggio. Quella squadra era speciale, si viveva molto insieme anche fuori dal campo. Il mio primo anno vincemmo tutto, Coppa Campioni contro l’armata Rossa, Coppa Italia e Intercontinentale e questo ha facilitato il mio inserimento in un gruppo di amici: Meneghin, Bisson, Zanatta,Ossola, Rusconi. Siamo rimasti assieme sei anni e con Dino tutti gli anni a Varese. Quando passò a Milano decisi di andare ad Antibes. Tre anni e il ritorno a Reggio Emilia: volevo finire la carriera in Italia».

Lei è stato un tiratore pazzesco. Ci fosse stato il tiro da tre dall’inizio chissà cosa avrebbe fatto.
«Tiravo già da quella distanza, ma era da due. A Reggio ho poi fatto 2 anni col tiro da tre. Coach Dado Lombardi non voleva si usasse, era un conservatore. Gli dissi: “Dado se tiro con il 40 da tre e come facessi il 60 da due. E se dovesi segnare con il 50?”. Mi rispose: “Tira solo se libero”. Non so se ci siano ancora le statistiche, ma il primo anno chiusi con il 59% da 3».

L’avversario più forte?
«Renzo Bariviera: era alto quasi come me, molto mobile, mi marcava piuttosto bene, anche se io avevo un gran vantaggio: i blocchi di Dino Meneghin e passatori come Ossola».

Chiudiamo con il ricordo dei suoi allenatori. Nikolic e Gamba.
«Io ho avuto tre coach Hall of Famer: Chuck Daly un anno a Penn, Nikolic e Gamba. Nikolic era molto riservato, però aveva una conoscenza grandiosa del basket, dei punti deboli e forti degli avversari. Facevamo lunghe riunioni, analizzava ogni singolo avversario. E ci faceva allenare moltissimo per avere esecuzioni perfette. Era anche psicologo. Una delle prime volte mi chiese se fossi stanco, gli risposi di sì, “allora fai dieci giri del palasport di Masnago. Me lo richiese alla fine e gli dissi che non ero più stanco. Gamba invece è diventato un amico, lui guardava all’America, Nikolic a Est. È l’unico allenatore che mi è venuto a trovare negli States. Abbiamo scambiato spesso le nostre vedute, qualche allenatore puntava a mettere paura, Sandro no, ho apprezzato moltissimo il suo stile oltre alla sua conoscenza e non vedo l’ora di trovarlo».

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