Ciao Marco, eri un esempio anche per noi

A 58 anni si è spento per un attacco cardiaco il noto inviato de La Stampa Marco Ansaldo. Passione e grandi qualità: la sua vita
Marco era venuto qui, in redazione, due settimane fa. Insieme avevamo pianificato il suo ingresso a Tuttosport come opinionista di prestigio, una “firma” in più per il nostro giornale dopo che aveva lasciato La Stampa - come si dice - per raggiunti limiti di età. Doveva cominciare presto, prestissimo. Lo volevo già sul pezzo per Juve- Roma, poi la burocrazia (firme e decreti ministeriali che ritardavano) aveva frenato il suo debutto. Marco era felice di non perdere i contatti con il mondo che era sempre stato il suo mondo, anche se mi aveva chiesto una collaborazione «un po’ elastica» perché non voleva più avere sabato e domenica sempre occupati. «Dopo tanti anni a vagabondare qua e là, desidero ritagliarmi un po’ di tempo per me stesso», mi aveva detto, arrotando la erre sotto quei baffoni. E io gli avevo risposto subito sì, tanto sapevo che se gli avessi domandato uno sforzo in più lo avrebbe fatto con passione e professionalità. Marco Ansaldo era così, non si tirava mai indietro, sempre in viaggio, con la valigia pronta, disposto a buttarsi sulla cronaca di una partita, su una storia da raccontare, su un retroscena da svelare, Mondiali, Europei, Olimpiadi...
Era bravissimo, Marco. E non lo dico perché adesso non c’è più, fregato da un infarto, fottuto dalla vita proprio quando cominciava a godersela, ma perché era bravo davvero, che si parlasse di calcio o di scherma, di pallavolo o di sci, o di quello che si voleva. Marco non era mai banale, Marco era ironico e tagliente, Marco aveva una chiave di lettura per tutto, una prospettiva critica sempre interessante, la libertà intellettuale di scrivere ciò aziendali, limiti precostituiti. Marco era un giornalista come dovrebbero essere tutti i giornalisti e come spesso - purtroppo - non siamo capaci di esserlo: da lui ho imparato molto lavorandogli al fianco, condividendo le trasferte al seguito della Juventus, del Torino, del Milan, dell’Inter, della Nazionale, consumando cene e dopocene. Mi aveva (anche) insegnato ad apprezzare il cibo piccante: viaggiava con la scorta dei peperoncini, ovunque fosse, in qualsiasi ristorante si presentasse, tirava fuori dalla tasca il sacchetto di ordinanza e colorava i piatti di rosso. A Spalato, ai tempi dell’Italia di Arrigo Sacchi, aveva scioccato una vecchina che sul suo fazzoletto consunto vendeva peperoncini verdi: ne aveva addentato uno e poi un altro per assaggiarli, lamentandosi con una smorfia perché non erano abbastanza forti. Poi li aveva comprati tutti, offrendoli a tavola ai commensali. Ricordi che spaccano l’anima e fanno venire i lucciconi. Marco mi/ci mancherà, mancava già da (pre)pensionato non leggendo più i suoi resoconti su La Stampa, figurarsi adesso. Non mi viene da scrivere altro, eppure potrei scrivere per ore, per giorni. Trent’anni di vita, di carriera con il “mormone”, un colpo di spugna e una esistenza non c’è più, inghiottita dal destino. Marco detestava la logorrea, i moralismi, toni e modi appicicaticci: era sabaudo nei pensieri e negli atteggiamenti, dunque non gli romperò le palle da quaggiù con le solite frasi che si scrivono sui morti. Glielo dovevo, glielo dobbiamo tutti noi colleghi. Però, Marco, stavolta l’hai fatta grossa. Troppo grossa.

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