Il calcio moderno lo ha inventato Johan Cruijff

La rivoluzione olandese del pallone portava il suo volto e si declinava nel suo nome, che possedeva la forza concreta del fuoriclasse e l’etereo fascino del profeta, fascino addirittura onomatopeico
Il calcio moderno lo ha inventato Johan Cruijff© www.imagephotoagency.it

TORINO - Il pallone si è spento. L’immortale Johan Cruijff non è più. Se non è morto il calcio, certo sta poco bene. Almeno per quelli della nostra generazione e limitrofe: dai figli dei fiori ai figli del miracolo economico. I baby boomers, insomma. Per noi era lui, il calcio, inteso come l’altro calcio. La rivoluzione olandese del pallone portava il suo volto e si declinava nel suo nome, che possedeva la forza concreta del fuoriclasse e l’etereo fascino del profeta, fascino addirittura onomatopeico. Johan Cruijff: J.C. era uno dei Cristo laici che hanno reso formidabili i Sessanta (e Settanta), colui il quale non solo annunciava ma dimostrava che un altro calcio era possibile: come un’altra musica con i Beatles, un’altra politica con Che Guevara, un’altra letteratura con Kerouac, un altro cinema con Truffaut e avanti così, sognando.

Profeta del gol non fu un banale soprannome. Come non banale era ed è l’omonimo film di Sandro Ciotti e, soprattutto, della sua inconfondibile voce. Sport, letteratura, cinema, politica sono tutt’uno, in J.C.: vita. L’Ajax di Rinus Michels, l’Olanda cambiavano il calcio rispettando in pieno l’atmosfera onirica, utopistica di quegli anni. Stracciava il conformismo anche nel football, rompeva gli schemi e pure i ruoli: già, che ruolo aveva Cruijff? Centravanti? Con tanta licenza poetica rispondiamo di sì, ma centravanti senza casa, senza fissa dimora, nomade. Un apolide dell’attacco segnalato fin dal numero scelto. Scelto ovviamente altrove rispetto alla normalità dall’uno all’undici d’allora: il quattordici. Il campione dell’altrove. Altrove stava quel calcio rispetto a tutto quanto c’era stato prima. Aveva afflati quasi collettivistici, certo esaltava l’unità e la solidarietà del e nel gruppo: si attacca e si difende in undici. Contano i movimenti e i sincronismi, più dei singoli.

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E la generosità, in cui anche Johan era prodigo. Il ritiro? Ci si va con le famiglie, le donne. E l’allegria. Siamo atleti che danno spettacolo, mica suore di clausura. Il sesso? Ben venga, poi giochi meglio. Già, perché l’obiettivo non era essere più forte, in campo, l’obiettivo era essere più bravo. Come lui: Johan, da bimbo detto il Papero e subito dopo ritoccato d’oro, per tecnica e velocità e fantasia. Ma torniamo a quel calcio travolgente e stravolgente: in esso è possibile leggere altre armonie del tempo. Come la volontà ferrea di esserci, di partecipare, di determinare: assimilabile col pressing. Come la non violenza, la resistenza passiva: rappresentabile con il fuorigioco sistematico. E altrove faceva proseliti: tra i primi, da noi, Gigi Radice che riportò lo scudetto al Toro dopo Superga ammirando J.C. e il suo verbo. Anche le ere del pallone dovrebbero dividersi in AC e DC: Avanti Cruijff e Dopo Cruijff.

PENNELLO E MARTELLO - Il volto di tutto ciò è il volto di Cruijff. Il giocatore totale del calcio totale. Segnava e faceva segnare, ma era capace di pressare per primo gli avversari, rincorrerli; era capace di salvare un gol sulla propria linea di porta e ripartire per andare a segnarlo, il gol. Era talento ed era sacrificio: artista e manovale, lusso e frugalità, classe e fatica. Cruijff e il calcio che rappresentava sono stati simbiotici, l’uno il figlio dell’altro e, in altri tempi, viceversa. Una cosa sola, alla fin fine. Con due peculiarità, una collettiva e una individuale, che ne dettagliano l’intramontabile grandezza.

La rivoluzione olandese è stata così profonda e radicale da superare il mero, utilitaristico concetto di vittoria, dimostrando in fondo che vincere può non essere tutto (quell’Olanda fu sconfitta in due finali mondiali consecutive, nel ’74 e nel ‘78, da Germania e Argentina e pure da qualche ombra...) ma che la differenza la fa sempre il come: come si vince e pure come si perde. Il Pelé bianco (così lo appellò Brera), invece, è stato l’unico dell’Olimpo calcistico, laddove sono i soli Maradona, i Di Stefano e, appunto, i Pelé, a scalare pure l’Olimpo dei tecnici: in panchina, con Ajax e soprattutto Barcellona, ha aggiornato il calcio totale dei suoi maestri, ponendo le basi su cui svettano i grattacieli pallonari d’oggi, i maestri occupatori di spazio che partono da Guardiola e arrivano a Luis Enrique e di nuovo al Barça. Ancora una volta profeta, ancora una volta J.C. Immortale dio del pallone, olandese volante. Altrove, ma per sempre qui, nel calcio.

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