Quando Gasperini andò a trovare Ilicic in ospedale

Quando Gasperini andò a trovare Ilicic in ospedale© www.imagephotoagency.it

Dopo la vittoria sul Torino, Gian Piero Gasperini ha raccontato: «Ricordo quando sono andato a trovare Ilicic in ospedale. Era il 2020, dovevamo partire per Lisbona. Io non ho molta forza, ma l’ho tirato su come un manichino. Era praticamente un manichino leggerissimo. Ora, forse, non riesco più a tirarlo su, però sono più contento così. Per me, la cosa più importante è che Josip sia recuperato come persona. Non so lui che cosa farà: se troverà un’altra squadra, glielo auguro, vorrà dire che potrà giocare; se giocherà a casa sua dove gli vogliono bene, glielo auguro. È un uomo di 34 anni, recuperato: nella vita può fare cose straordinarie, così come le ha fatte da calciatore». Ecco, bisogna partire da quel giorno in ospedale per capire la grandezza del Professore, il suo coraggio, la sua forza d’animo e per capire perché, giovedì scorso, ventimila bergamaschi si sono alzati tutti in piedi al Gewiss Stadium, gli occhi lucidi, la pelle d’oca e non avrebbero mai smesso di applaudirlo, di mostrare la sua maglia, di lanciargli baci e sciarpe, in una notte che Josip, l’Atalanta e la sua gente porteranno nell’anima per sempre.

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Non è stato soltanto l’omaggio all’Eroe di Valencia, a quei quattro gol che segnarono il picco delle sue magie in Champions né tantomeno l’inchino collettivo a uno dei più grandi calciatori che abbiano indossato la maglia nerazzurra nei quasi 115 anni di storia della Dea. Sul campo, in questi cinque anni neroblù Ilicic è stato classe, talento, spettacolo allo stato puro, incantando come i solisti slavi sanno incantare con il pallone fra i piedi. Ma, fuori dal campo, Ilicic ha dovuto combattere contro un rivale infido, subdolo, invisibile, che a volte dribblava lui e che lui, alla fine, ha dribblato, mettendolo a sedere per sempre. All’altro, il Covid, aveva segnato prima, ma anche quella volta, la partita aveva richiesto i supplementari. Fu proprio nella notte di Valencia che, dopo il trionfo nel Mestalla deserto, in diretta tv, attorniato dai suoi compagni mostrò la t-shirt sulla quale campeggiava una scritta: «Berghèm mòla mia».

In calce all’immagine, non c’era bisogno di didascalia. Dilagava la prima ondata del Covid, Bergamo contava seimila morti, raggelò il mondo l’immagine dei settanta camion dell’Esercito che trasportavano le bare lontano dalla città, verso i crematori di altre regioni perché l’unico orobico, funzionante 24 ore su 24, non poteva più accogliere i feretri. Fu allora, che di ritorno da Valencia, Ilicic consegnò il pallone della sua meraviglia al Papa Giovanni XXIII perché fosse messo all’asta. E poi fece una ricca donazione che volle rimanesse anonima. Ripetè lo stesso con il Premio Gasco. Ogni anno, nel nome di un grande imprenditore cuneese, il Premio Dardanello attribuisce il riconoscimento a un protagonista del mondo dello sport distintosi per le sue concrete azioni di solidarietà. Dopo la consegna virtuale, quando il virus allentò la morsa, andai a Zingonia insieme con Paolo Cornero per procedere brevi manu. Ricordo ancora la commozione di tutti, lo sguardo di Josip, il suo saluto: «Mòla mia», due parole il cui significato proprio non ha bisogno di traduzioni nemmeno in Slovenia, dove il Professore ha finanziato la costruzione di un campo giochi per i bambini del paese in cui è cresciuto, ovviamente senza che si sapesse in giro. «Grazie per avermi sostenuto e per esserci sempre stati», ha scritto Josip sui social, coltivando la virtù della gratitudine verso i Percassi, Gasperini, i compagni, i tifosi che non l’hanno mai lasciato solo. «Cinque anni di gioia, felicità e magia, ma anche dolore e momenti non sempre facili. Grazie a chi mi è stato vicino e per l’affetto che mi dimostrate sempre. Insieme abbiamo fatto la storia e la storia non sarà mai dimenticata». No, non sarà mai dimenticata, Professor Ilicic. Mòla mia. Mòla mai.

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