Juve, Nedved: «Ecco cosa insegno ai miei figli»

«Spiego loro che nel calcio o nella vita servono lavoro duro e sacrifici». In una lunga intervista al Financial Times, Nedved si confessa e racconta: «Quella volta che Umberto Agnelli spaventò a morte mia moglie»
Juve, Nedved: «Ecco cosa insegno ai miei figli»

TORINO - «Mia moglie mi telefonò allarmatissima, mi disse che un uomo aveva bussato dalla finestra del retro, era entrato e mi aspettava seduto al tavolo della cucina. Non aveva capito chi fosse ed era un po’ spaventata. Me lo feci descrivere e la tranquilizzai: era Umberto Agnelli, che viveva poco lontano da me, alla Mandria: amava passeggiare nel bosco e ogni tanto si affacciava nel retro di casa mia. Ci considerava parte della sua famiglia, mi ha aiutato tantissimo, specialmente nel nostro primo anno a Torino ed è diventato un amico molto importante». E’ uno dei tanti aneddoti che Pavel Nedved ha raccontato in un’inusuale ma interessante intervista al Financial Times, che ha tratteggiato il personaggio di un «ceco che ormai è diventato italiano».

 

MURO E PALLONE - «La caduta del muro di Berlino ebbe un tempismo perfetto per la mia carriera: avvenne proprio nel momento giusto, da quel momento si era aperta la possibilità di andare a giocare all’estero». E ricorda, Pavel, come la Cecoslovacchia reagì: «Una manifestazione pacifica. Scendemmo in piazza e agitammo i nostri mazzi di chiavi per fare sentire il rumore: un modo per capire al vecchio regime che era tempo di andarsene».

 

ROMA SHOCK - Poi arrivò la chiamata della Lazio e il trasferimento a Roma: «Un vero e proprio shock! Roma era rumorosa e incasinata. Ogni piccola cosa sembrava un ostacolo insormontabile: dalla lotta con la burocrazia per ottenere i documenti alle visite ginecologiche di mia moglie che era incinta della nostra prima figlia. I dottori parlavano e io non capivo». Nedved, tuttavia, si innamora dell’Italia: «Erano tutti sorridenti e pronti ad aiutarci. I cechi sono in linea di massima chiusi e timidi, mentre gli italiani sono così solari».

 

TORINO MIA - Nel 2001 il trasferimento alla Juventus e, soprattutto, a Torino. Pavel trova casa in mezzo ai boschi: «Da dove posso vedere le montagne e sono circondato da alberi che mi ricordano la mia infanzia a Skalna, dove sono cresciuto andando a rubare la frutta con il mio amico Tomas. Vivere in un bosco mi riporta alle mie origini, è per questo che sto tanto bene qui». I suoi bambini, Ivana e Pavel, sono nati e cresciuti in Italia «e si sentono praticamente italiani», anche se Nedved li obbliga a seguire, parallelamente al corso di studi italiano, anche quello della scuola ceca, sostenendo gli esami del caso. Ma il vero insegnamento è quello dell’etica del lavoro: «lavorare duramente e fare i sacrifici devono essere dei passaggi naturali se si vuole migliorare o ottenere qualsiasi tipo di successo: nel calcio o nella vita». E il calcio? Nell’intervista al FT ce n’è poco, perché - spiega Nedved: «In Italia ce n’è troppo nei media e ovunque. Non c’è Paese che vive il pallone come voi. Forse perfino un po’ esagerato».

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