Gianni Agnelli, vent’anni in cui non è mai andato via

Gianni Agnelli, vent’anni in cui non è mai andato via© A. LIVERANI

Manca da vent’anni, ma non se n’è mai realmente andato. Troppo ricorrente nei discorsi, troppo influente il suo esempio, troppo presente la sua eredità per considerare Gianni Agnelli definitivamente un pezzo di storia, nonostante - appunto - siano passati vent’anni. «Chissà cosa avrebbe detto l’Avvocato» è una domanda che rimbalza spesso nel dibattito (calcistico e non), spesso ci si inventa delle risposte, ma è un giochino difficile quello di copiare stile e intelligenza di certe battute, efficacia di certe metafore.

Qualche giorno fa ne abbiamo, purtroppo, dovuto rinfrescare una, per ricordare Gianluca Vialli che Gianni Agnelli aveva definito «il Michelangelo della Sistina, ovvero lo scultore che diventa pittore». Una perla di conoscenza calcistica e di storia dell’arte, perché tutto corrisponde perfettamente in quell’accostamento fra due mondi apparentemente distanti anni luce, ma che la profonda passione per il bello dell’Avvocato aveva avvicinato con una manciata di parole. È stato lui a insegnarci che il calcio e lo sport in generale erano cultura, abbattendo uno steccato la cui altezza oggi non cogliamo proprio perché è stato smontato nell’ultimo mezzo secolo, ma negli Anni 70 era un muro solido e quasi invalicabile. Gli intellettuali e gli sportivi erano due insiemi con rare e minime intersezioni. Quando nasce Repubblica, nel 1976, non ha le pagine sportive, per fare un esempio. E la figura dell’intellettuale orgogliosamente tifoso, pronto a ostentare la fede calcistica, era quasi inesistente, al punto che faceva scalpore Pier Paolo Pasolini, uno dei primi a spiegare il valore culturale e sociale del pallone.

In quel periodo, l’Avvocato parlava di calcio senza sminuirlo, con lo stesso approccio che dedicava alle “cose serie”, non mancando mai di spendere un pensiero alla sua Juventus nelle interviste più importanti, alcune delle quali passate alla storia perché fra una riflessione sulla Fiat e una sulla situazione internazionale, veniva infilata una chicca sulla Juventus o su un giocatore.

Era uno degli uomini più potenti del Paese, uno dei più ascoltati nel mondo, aveva una cultura raffinata e sapeva indiscutibilmente godersi la vita, ci ha insegnato proprio in quegli Anni che uno dei modi per farlo è andare a vedere le partite, amando e soffrendo per una squadra di calcio, anche per uno come lui, élite delle élite. Se oggi nessuno mette in discussione il fatto che certi gol di Sivori, Platini o Baggio (per citare tre suoi pupilli) sono opere d’arte, lo si deve ai suoi soprannomi e alle sue similitudini. Ha tolto a milioni e milioni di appassionati di calcio quel senso di colpa che un certo intellettualismo insinuava, riducendo uno dei più entusiasmanti e drammatici spettacoli del mondo a una sfida fra trogloditi in calzoncini. Non è una rivoluzione da poco ed è uno dei pezzi di eredità di Gianni Agnelli di cui godiamo ancora adesso e che rende la sua figura attuale e non storica. A vent’anni dalla sua scomparsa, comporre un giornale dedicato a lui è una questione di scelte dolorose, perché vorresti mettere mille altre foto, vorresti riproporre mille altri articoli, vorresti scriverne mille di nuovi sentendo persone che l’hanno conosciuto e consentono la scoperta di una battuta nuova o un punto di vista nuovo per osservarlo. Una cosa, però, dà soddisfazione: a distanza di vent’anni, Gianni Agnelli è ancora una miniera ricchissima di contenuti, di pensiero, di storie e di Storia. Sì, è vero, ci manca, ma in fondo non se n’è mai andato del tutto.

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