Bagnoli: «Che bello il Toro primo come quel mio Verona»

«Il segreto è l’armonia del gruppo. Noi vincemmo lo scudetto cambiandone solo due»
Bagnoli: «Che bello il Toro primo come quel mio Verona»© LaPresse

TORINO - La favola del suo Verona? Una parentesi calcistica da far studiare sui libri di scuola. Davide che batte Golia? La rivincita del povero sul ricco? Stereotipi che lasciano il tempo che trovano. Fu il trionfo della volontà, dell’entusiasmo, del “se vuoi puoi” e anche della classe più meno operaia che allora certo non mancava e che andò in paradiso. Basta dare uno sguardo ai nomi dei protagonisti di quell’incredibile impresa di trent’anni fa per rendersene conto: Garella, Fontolan, Ferroni, Marangon, Tricella, Briegel, Bruni, Di Genaro, Volpati, Donà, Elkjaer, Galderisi, Fanna, Turchetta. Adesso, la Serie A degli “intrusi” vorrebbe continuare a sognare. Una parte, appunto: Torino, Chievo, Sassuolo, Palermo che stanno in vetta dopo le prime due giornate, con la più blasonata Inter. Ecco il pensiero e l’opinione di uno dei principali interpreti di quello storico titolo, in panchina, sul campo, negli spogliatoi.

Osvaldo Bagnoli, buongiorno. Parliamo un po’ del nostro bistrattato calcio? «Perché no. Faccio una premessa: ho ottant’anni e un po’ mi perdo nel pallone d’oggi. Però è bello vedere squadre come il Chievo, che sta facendo più del normale, e il Torino comandare la classifica. E poi leggo di un mare di nuovi acquisti, li leggo e rileggo, ma non mi lasciano nulla dentro. Vedo la Juventus che ha cambiato molto, l’Inter che ha optato per la rivoluzione con dieci arrivi eccetera eccetera. Prima, li conoscevo bene tutti, i giocatori. Ma qui in Italia piombavano Maradona, Zico, Platini, Gullit, Van Basten, Junior, Krol e via discorrendo. Non avevi bisogno di informarti. Adesso, invece, devo chiedere, perché ci sono squadre con 11 stranieri e rose infinite. Ma chi è quello lì? Chi è quello là? Questo per dire che non siamo più il campionato più bello del mondo e che l’invasione non è proprio di qualità. E per me stare al passo con i tempi è difficile».

Non si preoccupi, lo è anche per i più giovani: non trovano spazio. «Spesso chi vince lo scudetto Primavera non ha sbocchi in prima squadra. E’ dura».

Quando allenava lei c’era il tetto per chi proveniva da fuori. «Una regola precisa: potevi tesserare due stranieri. E basta. Non c’erano problemi di inserimento, di dialogo».

Il segreto del suo successo? «L’armonia del gruppo, non certo il sottoscritto. Noi cambiammo solo due giocatori, gli stranieri Briegel ed Elkjaer appunto, confermando tutti gli italiani».

Sul tedesco ha un aneddoto da raccontare, vero? «Ciccio Mascetti fu bravissimo, lo scelse lui. Dovevamo sostituire il terzino sinistro Marangon che aveva deciso di lasciarci. Invece, alla fine rimase. Così ci fu l’intuizione. Secondo le mie abitudini, andai a parlare a Briegel che in Germania aveva sempre giocato in difesa sulla fascia mancina. Dovevamo affrontare il Napoli e gli chiesi: ti piacerebbe agire come mediano marcatore, andare su Maradona? Li rispose: è il mio sogno, giocare in mezzo. Bene, così ci fu la svolta».

Kamil Glik sembra ricordare, per atteggiamento, proprio Briegel. «Gente che dà tutto in campo,un simbolo, anche per la serietà e il comportamento, anche se non posso dare un giudizio preciso sul granata. Vedendo però come porta i gradi da capitano, il fatto che indossa quella gloriosa maglia dal 2011 mi fa tornare indietro al mio Verona. Oltre allo scudetto, arrivammo due volte quarti, perdendo due finali di Coppa Italia. Erano i calciatori italiani a formare lo zoccolo duro, il tecnico entrava poco nelle dinamiche. I ragazzi erano affiatati, un tutt’uno con l’ambiente. Visto da fuori, il Toro ha delle similitudini. Io, ripeto, a 80 anni frequento ancora Fanna, Sacchetti, i tifosi legati da quel titolo. E lo ribadirò all’infinito: l’armonia tra i protagonisti fece la differenza. Allora come oggi».

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