Viaggio senza tempo al Fila, la nuova casa del Torino

Il cantiere non si ferma mai e i tifosi possono controllare i lavori sulla passerella. Si spera di arrivare per tempo al 17 ottobre. La storia del calzolaio granata
Torino, viaggio nel nuovo Fila

TORINO - Viaggio al Filadelfia, ponte tra passato e futuro del Toro. La passerella consente a tutti di affacciarsi sul cantiere. Ed è una teoria senza fine. Grazie all’impegno di molti, dal presidente Urbano Cairo al Comune alla Fondazione, la svolta è arrivata con un progetto che è diventato realtà. Si lavora e anche speditamente. A volte pure di notte e nel fine settimana. Non più di una ventina di operai, ma ben sincronizzati. Fondamenta, muri di sostegno, basi per il parcheggio sotterraneo centrale. La “creatura” cresce a vista d’occhio. Come la commozione dei presenti; un flusso continuo, sempre molto discreto. Si lascia la strada per salire sulla passerella, per vedere l’effetto che fa, per entrare in un’altra dimensione, quasi mistica, onirica.

 

LA FESTA DEL '76 - E la memoria sgorga sovrana. «Io abitavo al quinto piano, qui di spalle e quindi vedevo il campo, quanto succedeva. Ricordo anche le parole, a volte le urla. Ricordo Oberdan Ussello e l’avvocato Sergio Cozzolino, i re del vivaio... Un giorno assistetti al provino di un ragazzino di nome Marco Osio e sentii la frase: ha il culo basso ma è giocatore». Quanti ne sono passati di ragazzini-campioni, al Fila; un viavai ininterrotto, una fucina incredibile di talenti, finché l’incuria e la dabbenaggine hanno posto fine al sogno. «Avevamo il settore giovanile più forte del mondo. Adesso si preferisce uno straniero mediocre a uno dei nostri. Penso ad Antonio Barreca e Vittorio Parigini lasciati in Serie B: eppure, in questa rosa potevano starci benissimo. Il calcio è davvero cambiato, impera il dio denaro. La passione è messa nell’angolo». Ma ogni tanto esce, eh. «Qui al Fila il portiere avversario doveva mettersi i tappi per non uscirne sordo, tanto era subissato di improperi, di paroline e parolacce. Ma lo spirito era diverso, era goliardico e non c’era violenza. La gente accoglieva i giocatori, durante la settimana, nel parcheggio: «Date tutto, se no veniamo qui a prendervi a calci...», era il modo colorito di caricare la squadra, ma sempre con grande rispetto». Si cerca di arrivare alla data fatidica del 17 ottobre, per una nuova inaugurazione novant’anni dopo. Ma per il mondo granata l’importante è veder rinascere il Filadelfia.

 

IL CALZOLAIO - Quel signore lì, arzillo, e vestito di color granata, grembiule compreso, è un pezzo di storia, un testimone narrante, di fatti, di pallone, di vita vissuta, di presidenti della Repubblica che passano, di campioni che ci lasciano, di miti che ritornano. E suonano alla sua bottega in via Filadelfia. Il suo mestiere? Ripara scarpe, conserva cimeli, racconta spezzoni di storia. A chi? Ai clienti, ai curiosi, ai turisti attratti dalla sua vetrina-bacheca. Si chiama Vincenzo Bevilacqua - classe 1923, originario di Melfi, città che aveva un legame con Torino e con il Grande Torino raccontato dai militari spediti laggiù per punizione - prima operaio alla Fiat e a tempo perso calzolaio. Ma dal Fila in molti cominciarono a portargli le scarpette da riparare e quello che faceva a tempo perso divenne tempo pieno. «Con il cuoio era tutta un’altra vita. Ora con la gomma...», risponde un tantino sconsolato alla domanda “c’è lavoro in questo periodo?”. Appese alle pareti anche le pagine di Tuttosport; una attira subito l’attenzione: “Superga, la fine di tutto”. Una tragedia che lo ha toccato, ovvio. Era appena tornato in treno dalla Basilicata, il giorno dei funerali. Tutti piangevano, in città. I ragazzi con la maglia granata sono i suoi ragazzi. Sauro Tomà è solito fermarsi a scambiare quattro chiacchiere. E così la sua bottega diventa un punto di riferimento. Certo, senza il Fila sono cambiati gli interlocutori, non più così famosi. Ma la storia, si sa, è ciclica e non è detto che con il nuovo impianto non ci sia una ripresa laboriosa con la scarpette da calcio. «Io sono qui, gli operai ci danno dentro e non ci resta che aspettare». Nel frattempo, il signor Vincenzo si attrezza per dare un suo apporto al turismo “granata”. «Faccio fotocopie di immagini, di pagine, di articoli, di cimeli e li consegno a chi vuole sapere, a chi chiede un ricordo». Lì dentro è passata la storia. E il signor Franco, che ci accompagna nella visita dalla passerella alla bottega, ne rievoca un’altra fetta. Con nomi sventolati così, di getto: «Quelle partite con Bearzot, Vieri, Scesa, Buzzacchera, Lancioni, fino a Ferrini e Agroppi, ancora Cereser. E poi Giagnoni, Radice... Che Toro». E che tifosi. Qui scocca la scintilla: «Prima bisogna essere antijuventini». Ma Gabriele, il piccolo della compagnia, rinnova il copione: «Io tifo per le squadre della mia città, non capisco perché si fanno tutta questa guerra». Meglio (ri)farsi le scarpe...

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Loading...