Junior a Tuttosport: «Cairo pensa ai soldi: il Torino viene dopo»

L'ex granata: «Mi bastò incontrarlo una volta per capire chi è. Non c'è la società, i giocatori vanno e vengono»
Junior a Tuttosport: «Cairo pensa ai soldi: il Torino viene dopo»© LaPresse

«Imparai qualche parola di piemontese per colpa di Giunta e Tardito. Sto scherzando, naturalmente. Durante i massaggi, loro parlavano sempre in dialetto e io non capivo niente. “Siete dei maleducati!”, urlavo. Poi, dopo qualche mese, li minacciai in piemontese: “Attenti a cosa dite, perché ora vi capisco anch’io!”. La verità è che quel Toro era una grande famiglia a ogni livello. Anche per questo arrivammo secondi, nell’85. E non solo perché c’erano grandi giocatori». 
 
Campioni come lei, Junior. O Zaccarelli. Dossena. E poi Martina, Serena, Francini, Ferri, Galbiati, Danova... Con in panchina Radice. 
 
«Ma anche Schachner, Corradini, Sclosa, Comi, Mariani, Pileggi... Era un gruppo magnifico. Dopo le partite andavamo sempre a mangiare assieme, al ristorante Il Pirata. Ricordo ancora l’indirizzo, in via Cigna. Con noi c’erano anche le mogli e i bambini. Tra l’altro: mia figlia nacque proprio a Torino, un altro motivo per cui il Toro sarà sempre nel mio cuore. Veniva sempre anche Nino Franco, il nostro dirigente accompagnatore. Una persona splendida, che con i suoi modi di fare e la sua esperienza aiutava tantissimo noi giocatori e l’allenatore. E così, anche se magari in partita poche ore prima erano sorti dei problemi nella squadra, tra un bicchiere e l’altro tutto si risolveva subito. Nizzola, l’amministratore delegato, e Moggi, il dg, favorivano questo clima. Sapevano che era fondamentale per poter far bene in campo. Vedevano che noi giocatori stavamo creando una grande famiglia, appunto. Con dei valori. Eravamo pronti ad aiutarci sempre, l’uno con l’altro. Eravamo uomini veri, come si dice». 
 
E un bel numero di giocatori, una decina, arrivava dal vivaio. O almeno da una lunga, lunghissima militanza in prima squadra. 
 
«Infatti. E’ un altro aspetto decisivo per costruire una squadra unita e quindi vincente. I più giovani avevano una voglia incredibile di stare con noi grandi. Per imparare, per crescere, per sentirsi anche loro utili, importanti. Questa miscela nello spogliatoio fece grande la squadra, persino al di là delle qualità dei singoli».
 
Ha saputo, laggiù in Brasile, quanto è successo domenica a Empoli? Il rigore conteso da Iago e Belotti, dopo che Ljajic aveva fatto la stessa cosa contro il Milan, anche lui poi sbagliando il tiro. E poi tutti quel nervosismo al momento delle sostituzioni... Insomma, non tira una bella aria nello spogliatoio del Toro, da qualche tempo. 
 
«Sì, ho saputo, ho visto le immagini, ho letto degli articoli. Al Toro sono molto legato, lo sapete. Come al Pescara. Per cui continuo a informarmi. Di sicuro fatti così nel mio Toro non potevano succedere. E se queste cose capitano è anche perché c’è una mancanza di comando. Ho scoperto che è un problema che si è ripetuto. Un allenatore deve intervenire per tempo, decidere lui. Se non lo fa, permette soltanto che si alimentino tensioni e ansie tra i giocatori. Ma se non interviene lo stesso, nonostante tutto, allora deve pensarci la società. Un dirigente di alto livello deve prendere da parte il tecnico, parlargli e aiutarlo a non sbagliare. Ai miei tempi i rigori li potevo tirare io, o Dossena, o Zaccarelli. Ci allenavamo tanto al Filadelfia, a sbagliare sempre meno. E poi Radice decideva, dopo aver sentito anche i nostri umori. Di sicuro nella nostra famiglia granata nessuno si sarebbe mai permesso di rubare il pallone. Non avremmo mai mancato di rispetto in questa maniera ai compagni, all’allenatore, alla società, ai tifosi. Ma se l’allenatore non ha mai deciso, in questi mesi, e i dirigenti del Toro hanno lasciato fare, c’è solo una cosa da dire, a mio parere: hanno tutti scaricato le responsabilità, per errore o per incapacità, inesperienza. Queste cose non le devono decidere i giocatori, ma chi li allena, chi li deve dirigere. Poi mi dicevate del nervosismo in campo in altre situazioni... Sono tutte conseguenze di quello che fai o non fai in allenamento, settimana dopo settimana». 
 
Anche perché nel Toro i giocatori vanno e vengono?
 
«Giusto. Vanno e vengono». 
 
Ogni due o tre anni partono i migliori. E non si crea mai uno zoccolo duro. Darmian, Cerci, Immobile, Glik, Maksimovic, Peres... Ma anche tanti altri meno bravi, ma che comunque stavano imparando a comprendere il valore della maglia. E la piazza. 
 
«Lo dicevamo prima. Ai miei tempi tanti calciatori arrivavano dal vivaio o giocavano nel Toro da anni. Per cui conoscevano la dimensione del Torino, portavano sulle spalle l’identità granata. E per uno straniero come me, per esempio, era più facile inserirsi, comprendere l’ambiente. Capire cos’è il Toro, insomma. E cosa si aspettano i tifosi. C’erano grandi dirigenti come Nizzola e Moggi, ma anche tanti collaboratori a ogni livello, vicino ai giocatori, che lavoravano da molti anni nel Toro, che avevano valori da trasmettere. Insegnamenti. Come poteva fare fino a un anno fa il mio amico Giacomino». 
 
Giacomo Ferri?
 
«Certo. So che lo hanno fatto andare via. E’ stata una sconfitta per il Toro. Una grande perdita. Giacomino era una bandiera, era un esponente della vecchia guardia dei miei tempi. Viveva il Toro da 40 anni, si nutriva di Toro, sognava il Toro. Grazie al suo carattere, e alla sua esperienza, dava ai giocatori tante indicazioni, li aiutava a inserirsi nell’ambiente. E so che aiutava tanto anche l’allenatore, durante la stagione. Non solo i giocatori. Bisogna saperli ricoprire, certi ruoli. Ma lo hanno fatto andare via, Giacomino. I legami andrebbero protetti, conservati. Non spezzati». 
 
Prima ci raccontava della società di Sergio Rossi. 
 
«Era forte e ben strutturata. Rossi era un tifoso vero, che parlava poco e delegava molto. Era una persona squisita, che si presentava nello spogliatoio solo quando necessario. E non per farsi vedere. Comandava Moggi, con Nizzola al fianco. Se ne intendevano di calcio. C’era una bellissima amalgama anche in società tra tutti i dirigenti, come tra noi calciatori. Quando andavo nella sede di corso Vittorio Emanuele, a pranzo, li vedevo tutti assieme allo stesso tavolo, sereni. Quando una società e una squadra sono così uniti, nascono meno problemi. E se nascono, si risolvono prima, e più facilmente». 
 
Radice aveva un carattere molto duro, autoritario. Come Mihajlovic, per tanti aspetti. 
 
«A maggior ragione un allenatore così spigoloso avrebbe bisogno di dirigenti di alto livello, capaci di aiutare sia lui sia i giocatori a sbagliare di meno. E di portare equilibrio e tranquillità, in certi momenti. Per quel che ne so io, il Torino di oggi non ha la struttura forte, compatta e ricca di storia granata che c’era in passato».
 
In questo ultimo decennio le è capitato di venire più volte a Torino. 
 
«Sì. E mi sono fatto un’idea sui giocatori, vedendoli e parlando con un po’ di persone ben informate. Mi è parso che in questi anni troppi calciatori granata non avessero la voglia che avevamo noi di giocare e dare tutto per il Toro. Non sono attaccati alla maglia come ai miei tempi. Giocano tanto per giocare. Tanto sanno che, nel caso, un posto in qualche altra squadra lo trovano sempre. Pensano prima ai contratti, e dopo alla maglia. E così non costruisci grandi gruppi».
 
L’insegnamento di Sergio Rossi ha ancora un senso, oggi?
 
«Il calcio è cambiato tantissimo, anche in Brasile. E’ sempre più difficile trovare dei presidenti intelligenti, ricchi e tifosi. Ma una squadra non è una scatola di plastica da comprare e vendere». 
 
Gli ultimi tre bilanci del Toro sono stati chiusi in attivo. E tra l’estate e gennaio il mercato granata ha portato alla luce operazioni per un saldo positivo di oltre 27 milioni. Quasi 62 garantiti dalla cessioni. E 34 quelli spesi. Intanto, in questi anni, Cairo è diventato una potenza. Ha comprato tv, grandi giornali... 
 
«Ha imparato bene da Berlusconi! Dal suo ex padrone! Siete voi che vi sorprendete. Io no. Io compresi subito chi è Cairo tanti anni fa, quando lo incontrai. Andai a cena con lui e Comi. Voleva che facessi l’osservatore del Toro in Brasile per i suoi... occhi belli, per il colore dei suoi occhi... perché li aveva verdi o azzurri... Io ho capito che a Cairo interessano i soldi, interessa chiudere i bilanci in attivo. Il Toro viene dopo. E chissenefrega dei sentimenti dei tifosi! Ho capito subito che voleva guadagnare. Per questo non mi sorprende affatto se la squadra continua a galleggiare a metà classifica, o poco più su. E se i giocatori migliori vengono venduti dopo due o tre stagioni. E se non costruisce una grande struttura dirigenziale e un grande spogliatoio. Ma il Toro e i suoi tifosi meritano di più. L’Europa sarebbe la dimensione giusta del Toro pure al giorno d’oggi, anche se i grandi club hanno ricavi non paragonabili con quelli delle altre società. Ma evidentemente a Cairo va bene così. A Cairo basta così». 
 
Nel Toro c’è il suo connazionale Castan. E anche Carlao, ora. 
 
«Castan è un bravo difensore e ha anche un carattere forte. E’ cresciuto nel Corinthians, ha imparato lì a reggere le pressioni anche più esasperate. Sono felice che abbia superato il problema al cervello e che stia rinascendo nel Toro. Può essere una colonna per il futuro. Quanto a Carlao... Ricordo alcune partite qui in Brasile, tanti anni fa. Ma lo conosco troppo poco per dare giudizi». 
 
Domenica il Toro ospiterà il Pescara. E lei a Pescara ha lasciato un altro pezzo di cuore. Ora è esplosa anche la violenza, attorno alla crisi della squadra. 
 
«La violenza è da condannare, sempre. Non risolve i problemi. Anzi, li amplifica. E fa pure scappare eventuali acquirenti del club. La violenza non è mai una soluzione. Mai». 
 
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