La confessione di Romero: «In me Meroni muore tutti i giorni»

Alla vigilia dell'anniversario della morte di Meroni, parla chi lo investì: «Guidavo, lo vidi, sperai, ma lui fece un passo indietro»
La confessione di Romero: «In me Meroni muore tutti i giorni»© ANSA

TORINO - «Sono Attilio Romero. E sono passati 50 anni. Ma il senso di colpa mi accompagnerà sino alla fine. Non basta mezzo secolo per sconfiggere il dolore. Certo, è molto meno acuto, costante e violento. Imparagonabile. Ma l’angoscia c’è. Sale e scende. Un fiume carsico. A sera riguardo Gigi, prima di addormentarmi. La sua foto autografata è appesa nella mia camera. Non lo supererò mai, quel giorno sbagliato».

LA SUA FOTO IN AUTO - «Da 3 anni, lavoro per il Gruppo Torinese Trasporti. Sono assistente del presidente e consulente alla comunicazione. Ho 69 anni, e ne avevo 19 il 15 ottobre del 1967. Una domenica, come domani. Una concatenazione di fatti incredibile. La casualità del destino, o il destino della casualità. Un nemico che vince sempre, non c’è niente da fare. Gigi era il mio idolo. Vivevo con i miei. E la mia camera era tappezzata di sue immagini. E anche nella mia auto avevo una sua foto, appiccicata a uno dei finestrini posteriori. Una Fiat 124 Coupé. Poche ore prima avevo litigato allo stadio con un altro tifoso del Toro, proprio per Meroni. Perché lo aveva criticato, nonostante la vittoria per 4 a 2 sulla Samp. Poche settimane prima della sua morte ero anche andato in piazza a manifestare contro la sua possibile vendita alla Juve: ci fu una sommossa di popolo, per lui. Per me, come per molti giovani, era persino più che un idolo. Era arrivato da noi nel ‘64 e rappresentò subito un simbolo di rinascita per il Toro, dopo la modestia degli Anni 50. Vivevamo di bagliori. Ma poi comparve Gigi, con la sua classe straordinaria: e per il Toro si aprì improvvisamente un mondo nuovo, dal 1964. Ma poi fa un passo indietro, quella sera. Un semplice passo indietro, lui che invece in campo scattava sempre in avanti, e danzava, saltava, dribblava tutti. Non pioveva, non c’era nebbia, ma era buio. Verso le 21. I giocatori avevano chiesto a Fabbri di poter lasciare il consueto ritiro del dopo-partita. La vittoria sulla Samp convinse l’allenatore: tutti liberi prima del previsto. Meroni rientra a casa in corso Re Umberto, con Poletti. Ma la sua Cristiana non era ancora tornata. E lui non ha le chiavi. Attraversa il corso, entra nel bar Zambon, telefona a casa degli amici da cui era andata, convinta che Gigi fosse in ritiro. E Cristiana si avvia, per andare da lui. Meroni, con Poletti, riattraversa il corso. Ma lì non ci sono le strisce pedonali, lì non si poteva. E si fermano proprio in mezzo, sulla linea di mezzeria. Io, a mia volta, ero andato a prendere in macchina un amico. Si chiamava Giorgio, era il figlio del giudice Mortarino. Che poi avrebbe seguito la carriera del padre. Al telefono mi aveva detto che voleva venire da me coi mezzi pubblici. Gli risposi: mannò, dai, ti vengo a prendere io con l’auto. Avevo la patente da poco meno di un anno e mezzo. Insomma, stiamo tornando insieme verso casa mia. Ancora oggi vivo tra quelle mura. A 200 metri dalla tragedia. E lì, sul corso, supero una macchina, ma senza invadere la corsia opposta».

AVREI DOVUTO SPOSTARMI - «Vidi quei due pedoni in mezzo al corso, e pensai che ci fosse lo spazio sufficiente per passare. E c’era, in teoria. Fu, quella, la mia tragica, colpevole leggerezza. Avrei dovuto temere il peggio, l’imponderabile, e rallentare, spostarmi a destra. Ma mi fidai della... situazione. Poi successe l’imprevisto. Meroni vide un’auto venire in senso opposto rispetto alla mia, si preoccupò e fece un passo indietro. Quel terribile passo indietro, proprio mentre stavo arrivando io. Andavo tra i 40 e i 50 all’ora, credo. E lo colpii, fu inevitabile. Fu sbalzato in aria, cadde a terra nell’altra corsia e fu travolto da una Lancia Appia. Praticamente illeso, invece, Poletti. Accosto subito. E’ a terra, agonizzante. Lo riconosco. Arriva gente. Sento le urla: “E’ Meroni!”. Più tardi correrò a casa dai miei genitori, totalmente sconvolto. Mio padre era primario di neuropsichiatria al Mauriziano, l’ospedale dove portarono Meroni. Dove poi sarebbe spirato. Corse lì. E, infine, ci fece sapere. Ci fu l’inchiesta. Non ricordo esattamente le percentuali di colpa. Ovviamente io di più, il 60 o 70%. Il resto Meroni. Mi sospesero la patente, mi diedero 6 mesi e la condizionale. Non andai dallo psicologo, me la sono vista da solo. Dato il suo lavoro, anche mio padre mi aiutò. Ma devi venirne fuori da solo, da cose così. Ogni giorno passo davanti al cippo che lo ricorda sul luogo della tragedia. Invece la foto autografata che ho in camera da letto me la portò una delegazione dei Fedelissimi Granata, una settimana dopo la sciagura. Dopo quel famoso derby vinto per 4 a 0».

DAVANTI ALLA TV, NEL NERO - «Solo dopo una decina di anni ho iniziato ad avere meno incubi. Ora ho un dolore sordo e una tristezza malinconica che mi accompagnano giorno per giorno. Sarebbe bastato un semaforo rosso e sarei arrivato due minuti dopo, non sarebbe morto... Ma non mi posso certo assolvere. Non ci avevo mai parlato, con Gigi. In compenso, ora, da 50 anni parlo al mio senso di colpa. E rivedo sovente il suo modo di camminare e correre. Parecchie volte sono andato da solo a trovarlo al cimitero di Como. Conobbi poi Maria, la sorella, molti anni dopo, a Milano. Ero diventato presidente del Toro. Ci parlammo, entrambi confusi: l’emozione, l’angoscia. Vidi per la prima volta Meroni dal vivo nel febbraio del ‘63, contro il Toro: giocava ancora nel Genoa. Manco a dirlo: la prima partita di Pianelli presidente. Le coincidenze del Toro, sempre. Come il pilota dell’aereo di Superga: Pierluigi Meroni. Da mezzo secolo tutte le sere lo riguardo in quella foto. Il senso di angoscia non mi lascia, e non mi lascerà mai. Domani, come sempre, seguirò la partita del mio Toro in tv. Ma so già che sarò... distratto, domani. Sarà tutto più nero, domani. Il giorno sbagliato ritorna tutti i giorni come una condanna. La casualità del destino, o il destino della casualità. E io lì in mezzo, sballottato da onde che mi inghiottiscono da 50 anni. E Gigi che muore, e rimuore sempre, muore ogni volta. E i suoi cari, la sua famiglia, Cristiana, travolti per sempre dalla tragedia. Sarà questa la mia vita, fino alla fine della mia vita».

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