Mazzola: "Se papà non fosse morto avrei giocato nel Toro"

Il figlio del grande Valentino: "L’Inter è stata e sarà per sempre la mia vita. Ma anche il Torino occuperà per sempre una parte del mio cuore"

«Deciderò solo all’ultimo, al mattino, se essere presente a Superga alla messa delle 17. Come sempre. Ascolto la mia anima. Non è tanto un fatto di fatica fisica. Che pure esiste, a 81 anni. Io a Superga sono andato tante volte da solo, in questi decenni. Raramente il 4, alle cerimonie ufficiali, con migliaia di persone. Non è… facile. Io salivo in altri giorni senza dire niente a nessuno, agli orari più strani, apposta per poter restare da solo su quella terra dove papà morì. E restava sempre un momento privato, dall’inizio alla fine».

«Mio papà Valentino. Poi una mia figlia chiamata Valentina. E un nipote chiamato Valentino, che nel 2019 giocò al Filadelfia per il centenario della nascita di mio padre».

«Il 4 maggio, quando arriva, mi porta a trovare una spinta in più e una strada… sempre particolare per ricordare papà, i suoi compagni e tutti coloro che sono morti a Superga. Lo faccio prima di tutto guardando il cielo. Dovunque io sia. Avevo 6 anni e mezzo quando morì. Dopo, da bambino e poi da ragazzino, mia mamma mi parlava con grande, faticosissima sofferenza di papà. Era tutto troppo doloroso per lei. Tutto più tragico per forza. Quando parlava, piangeva sempre».

«Io ero un discolo, e mio fratello Ferruccio anche più di me! Che fatiche fece per tirarci su!». «L’ho anche raccontato nel mio libro, nella mia autobiografia».

Sandro Mazzola, il ricordo di papà Valentino

S’intitola “Cuore nerazzurro” (edizioni Piemme). È una lunga, straordinaria confessione esistenziale e sportiva, esaltante per chi ama l’Inter, affascinante per tutti e a tratti anche divertente o molto commovente. Il ricordo di papà Valentino compare ripetutamente come un fiume carsico, evocato dalle date. O dagli eventi. Per esempio la Coppa dei Campioni vinta da Sandro contro il Benfica, l’ultimo avversario affrontato da suo papà. Oppure gli incroci di alcuni scudetti dell’Inter e anche del Torino nel 1976 con aneddoti personali uno più eccezionale dell’altro. Quando la sua Inter batté la Juve e appunto il Toro vinse poi lo scudetto, Sandro pensò, pure quella volta guardando il cielo: papà, hai visto? È anche un po’ merito mio…».


«La prima volta che rimisi piede al Filadelfia avevo 16 o 17 anni. Da interista. Una partita del campionato Juniores contro il Toro. Mi ballavano le ginocchia da aver paura di cadere. Ero negli spogliatoi dove si cambiava papà. Tutto uguale, una decina di anni dopo. E io lì. Inebetito dall’angoscia. Rivedevo me bambinetto, quando papà mi portava agli allenamenti al Fila e potevo giocare anch’io. Tiravo i rigori a Bacigalupo, che faceva finta di parare e così facevo gol e tutti ridevano da scoppiare di gioia… poi io facevo di corsa il giro del campo a braccia levate… Era un gioco bellissimo… e papà e io ci guardavamo felici… Comunque quella volta del mio primo ritorno al Filadelfia dopo la tragedia nessuno del Torino venne a salutarmi. Era come se non sapessero chi fossi, mi stavano lontano… Finché all’improvviso mi vide Zoso. Corse subito da me, mi sommerse di abbracci… Faceva il magazziniere già ai tempi di papà. Anche io mi ricordavo bene di lui. Beh… grazie a tutto quell’amore che mi riversò Zoso, poi riuscii a entrare in campo».
«Però poi che emozione quando il grande Bearzot, da capitano del Torino, per l’ultima giornata del campionato del 1963, prima della partita a San Siro contro di noi dell’Inter già laureati campioni d’Italia, mi consegnò la maglia di mio padre col tricolore sul petto. Immenso Bearzot. Un gesto… pazzesco per me. Ogni tanto riprendo in mano quella maglia e torno a guardarla…».

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I derby e l'Inter

Sandro ama raccontare di quando entrava in campo prima dei derby di suo padre a breve distanza dal figlio di Depetrini. «Camminavamo tenuti per mano dai due capitani, i nostri papà. E io lo guardavo in cagnesco, sempre. Mi sentivo di dover vivere anch’io il derby. E lo potevo giocare solo così, a 4, 5, 6 anni. E pure lui mi guardava male. Intanto i tifosi del Toro applaudivano… E mi sentivo un eroe anch’io. E col figlio di Gabetto mi scambiavo sorrisi di approvazione… Poi mi sedevo a bordocampo e iniziava la partita. E mio padre e i suoi compagni vincevano… E a me scoppiava il cuore di felicità e di orgoglio». E sorride, sorride di gusto, Sandro. Ridacchia persino: alla sua maniera, davvero… sotto i baffi. «Per me la Juve rappresenta da sempre una sana, grandissima rivalità sportiva. Volevo sempre vincere, anche a costo di lasciarci le penne».
«Certo, sono diventato una bandiera nerazzurra, ne sono orgoglioso, l’Inter è stata e sarà per sempre la mia vita. Ma anche il Torino, per via di papà, occuperà per sempre una parte del mio cuore. Se non fosse morto, sarei diventato un giocatore del Torino. È sicuro. È vero che lo voleva l’Inter e che lui era tentato, me lo hanno raccontato, ma io penso che al momento della decisione finale, sì o no, dopo aver parlato col presidente Novo, non se la sarebbe sentita di lasciare il Torino, l’avrebbe visto come un tradimento… E sarebbe rimasto, a costo di guadagnare molto meno. E così io avrei iniziato a giocare nel vivaio granata. E poi magari sarei diventato anch’io una bandiera del Toro, chissà… Quando giocavo al Fila, mi sembrava di vivere in un mondo fantastico. Speravo di diventare un calciatore del Torino come papà, un giorno. Pardon, del Toro».

«Poi c’è stato quel breve periodo da ds nel Torino di Cimminelli e Romero. Mi chiamarono. Dissi di sì perché era il Torino che mi chiamava. E mi pareva di non poter dire no, al Torino. Ma se fosse stata un’altra squadra… no, grazie… c’è solo l’Inter».

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Sandro Mazzola, il ricordo di papà Valentino

«Papà è sempre stato un punto di riferimento. Io sono credente, l’ho sempre pensato in cielo. Un’energia positiva al mio fianco. Mai per giudicarmi: un papà pronto ad ascoltarmi, ad aiutarmi. Anche quando mi bloccavo davanti a un compito in classe. Gli parlavo nel cuore, e dopo il compito fluiva… E se era un tema, mi veniva più lungo di quello dei compagni! Poi, da giocatore dell’Inter, fin dal vivaio, volevo dimostrare a me stesso che anch’io mi sarei conquistato tutto con la fatica, con il mio impegno, con le mie qualità. Come aveva fatto lui. Ricordo le sue manone enormi, rispetto alle mie di bambino. Seppi di Superga a scuola, il giorno dopo. La seconda moglie di papà non mi aveva detto niente… Vivevo con mio padre e con lei, all’epoca… E non ricordo nulla ma proprio nulla di quei giorni dopo Superga: la mia dev’essere stata una forma di autodifesa inconscia, psicologica».

«Papà era molto dolce. Di poche parole, ma molto dolce. Mi sentivo protetto con lui. Mi trasmetteva serenità in qualsiasi situazione. Anche in campo prima di un derby con migliaia di spettatori attorno che urlavano. Dopo la scuola giocavo col pallone vicino a casa, per strada… col rischio di rompere i vetri di un negozio… o di finire sotto una macchina… papà mi sgridava se mi scopriva… mi requisiva la palla di gomma… E quando si mangiava, si doveva finire il piatto, sempre. Eravamo appena usciti dalla guerra. Non si poteva sprecare neanche una briciola di pane».

«Gli rivolgo una preghiera tutte le sere. A lui, a mamma, a mio fratello. La fede in Dio mi ha molto aiutato. All’improvviso nel ’49 passai dal paradiso all’inferno. Ma tutto questo amore del popolo granata e dei bambini di oggi del Toro mi rende felice, mi riempie il cuore. In qualche modo dà anche un senso al tutto… a una tragedia altrimenti senza fine come un labirinto angosciante».
«Questa foto di mio padre che mi lega le scarpette e mi sistema i calzettoni prima di giocare… forse la foto più bella che conservo di me con papà… dice tutto, è semplicemente meravigliosa. Qualunque padre si rivede in questa immagine tenerissima. No, non ricordo quell’episodio particolare, di quando ci scattarono la foto. Papà è dentro di me».

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«Deciderò solo all’ultimo, al mattino, se essere presente a Superga alla messa delle 17. Come sempre. Ascolto la mia anima. Non è tanto un fatto di fatica fisica. Che pure esiste, a 81 anni. Io a Superga sono andato tante volte da solo, in questi decenni. Raramente il 4, alle cerimonie ufficiali, con migliaia di persone. Non è… facile. Io salivo in altri giorni senza dire niente a nessuno, agli orari più strani, apposta per poter restare da solo su quella terra dove papà morì. E restava sempre un momento privato, dall’inizio alla fine».

«Mio papà Valentino. Poi una mia figlia chiamata Valentina. E un nipote chiamato Valentino, che nel 2019 giocò al Filadelfia per il centenario della nascita di mio padre».

«Il 4 maggio, quando arriva, mi porta a trovare una spinta in più e una strada… sempre particolare per ricordare papà, i suoi compagni e tutti coloro che sono morti a Superga. Lo faccio prima di tutto guardando il cielo. Dovunque io sia. Avevo 6 anni e mezzo quando morì. Dopo, da bambino e poi da ragazzino, mia mamma mi parlava con grande, faticosissima sofferenza di papà. Era tutto troppo doloroso per lei. Tutto più tragico per forza. Quando parlava, piangeva sempre».

«Io ero un discolo, e mio fratello Ferruccio anche più di me! Che fatiche fece per tirarci su!». «L’ho anche raccontato nel mio libro, nella mia autobiografia».

Sandro Mazzola, il ricordo di papà Valentino

S’intitola “Cuore nerazzurro” (edizioni Piemme). È una lunga, straordinaria confessione esistenziale e sportiva, esaltante per chi ama l’Inter, affascinante per tutti e a tratti anche divertente o molto commovente. Il ricordo di papà Valentino compare ripetutamente come un fiume carsico, evocato dalle date. O dagli eventi. Per esempio la Coppa dei Campioni vinta da Sandro contro il Benfica, l’ultimo avversario affrontato da suo papà. Oppure gli incroci di alcuni scudetti dell’Inter e anche del Torino nel 1976 con aneddoti personali uno più eccezionale dell’altro. Quando la sua Inter batté la Juve e appunto il Toro vinse poi lo scudetto, Sandro pensò, pure quella volta guardando il cielo: papà, hai visto? È anche un po’ merito mio…».


«La prima volta che rimisi piede al Filadelfia avevo 16 o 17 anni. Da interista. Una partita del campionato Juniores contro il Toro. Mi ballavano le ginocchia da aver paura di cadere. Ero negli spogliatoi dove si cambiava papà. Tutto uguale, una decina di anni dopo. E io lì. Inebetito dall’angoscia. Rivedevo me bambinetto, quando papà mi portava agli allenamenti al Fila e potevo giocare anch’io. Tiravo i rigori a Bacigalupo, che faceva finta di parare e così facevo gol e tutti ridevano da scoppiare di gioia… poi io facevo di corsa il giro del campo a braccia levate… Era un gioco bellissimo… e papà e io ci guardavamo felici… Comunque quella volta del mio primo ritorno al Filadelfia dopo la tragedia nessuno del Torino venne a salutarmi. Era come se non sapessero chi fossi, mi stavano lontano… Finché all’improvviso mi vide Zoso. Corse subito da me, mi sommerse di abbracci… Faceva il magazziniere già ai tempi di papà. Anche io mi ricordavo bene di lui. Beh… grazie a tutto quell’amore che mi riversò Zoso, poi riuscii a entrare in campo».
«Però poi che emozione quando il grande Bearzot, da capitano del Torino, per l’ultima giornata del campionato del 1963, prima della partita a San Siro contro di noi dell’Inter già laureati campioni d’Italia, mi consegnò la maglia di mio padre col tricolore sul petto. Immenso Bearzot. Un gesto… pazzesco per me. Ogni tanto riprendo in mano quella maglia e torno a guardarla…».

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