Il ring è la vita e noi i perdenti

Il pugilato è al centro del nuovo romanzo di Elena Mearini, intitolato “Corpo a corpo”: il pugilato come scenografia e come metafora della vita
Il ring è la vita e noi i perdenti© REUTERS

TORINO - Perdiamo tutti, alla fine. Perdiamo perché vittime di quella ricerca del perfezionismo che droga i nostri tempi. Perdiamo perché invidiamo chi è all’apparenza perfetto, non accettando i nostri limiti o, semplicemente, il nostro essere differenti: non per forza peggiori. Perdiamo perché la trama della vita ci avviluppa come la tela di un ragno e diventiamo incapaci di liberarcene o lo facciamo con violenza, che è sempre sinonimo di sconfitta. Elena Mearini ha scritto un romanzo - “Corpo a corpo”, 112 pagine, 14 euro, arkadia - immerso nella realtà contemporanea, ma che avrebbe avuto eguale sviluppo e significato in una tragedia greca: non a caso, c’è un quasi totale rispetto delle unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione. Il pugilato non è soltanto il pretesto per il titolo o il fondale su cui va in scena l’azione: occupa un ruolo fondamentale, metaforico per quanto riguarda la storia, e tuttavia costanti sono i riferimenti a uno sport che in ambito letterario ha sempre occupato, e ancora oggi occupa, un ruolo molto importante.

La periferia milanese rappresenta il luogo perfetto per ospitare la palestra di Mario, dove Stefano, un tempo pugile semiprofessionista, si rifugia dopo avere assassinato la fidanzata Marta, sorella di Ada, creatura di inarrivabile perfezione, amata da tutti per la grazia e la luminosità che trasmette. C’è un lato oscuro in Ada, che - scopriamo - ha chiesto a Stefano di darle lezioni di boxe, quasi a volersi sporcare, a voler rovinare il quadro ideale costruito negli anni e ammirato da tutti. Ma, soprattutto, Ada decide di uccidersi per ragioni che restano misteriose (d’altronde, non è così per tanti suicidi?). È intensissima la scena del funerale, nella quale Marta si distrae a osservare i presenti e pensa che l’ostia le si attacchi al palato perché «Cristo non è convinto di scendermi in gola, dovrei essere più buona, bella e intelligente per invogliarlo. Ma io non sono Ada. Mi dispiace. Amen. La messa è finita. Invidio chi può andarsene in pace». Fino alla conclusione agghiacciante: «La fortuna stava dalla sua parte e io dovevo accontentarmi di giocare per perdere. Oggi, al cimitero, ho vinto per la prima volta».

Capite dunque che in “Corpo a corpo” a emergere sono i sentimenti più profondi dei quattro protagonisti, quelli di cui talvolta ci vergogniamo ma che ci appartengono non meno degli altri. Stefano, per dire, racconta a Mario l’accaduto leggendogli le parole del diaro di Marta e per lui quella figura di maestro e padre putativo rappresenta una sorta di specchio: «Ho usato male la forza, avrei dovuto tamponare il mio tempo con Marta, togliere a poco a poco quel male che ci stava inzuppando tutti i giorni. Invece no, mi sono messo a strizzare con la violenza dei barbari, ho voluto farlo uscire tutto in un colpo solo. Sono stato feroce con il male e lui si è vendicato. Mi ha fottuto, Mario». D’altronde, come scrive Mearini nell’incipit,  «Non è mai il momento giusto, il tempo è tutto un errore. Qualsiasi cosa tu faccia, in qualche modo e per qualche ragione, sbagli». Siamo miseri ruscelli senza fonte, ci ammoniva Battiato. Quanto aveva ragione.

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