Autobianchi Bianchina: un successo tutto italiano

L'Autobianchi Bianchina è stata associata al ragionier Fantozzi, il perdente per antonomasia. Ma conoscendone la storia si scopre che l'auto è stata l'esatto contrario: un modello di business e un progetto vincente, adirittura irripetibile
Autobianchi Bianchina: un successo tutto italiano

Nell’immaginario collettivo italiano, la “Bianchina” è la macchina del ragionier Fantozzi: bianca, piccola, fuori moda e vecchia. In una sola parola ridicola. Ma se si fa un passo indietro per conoscere la storia di quest’auto, si scopre che la Autobianchi Bianchina, classe 1957 è molto di più, anzi: è tutt’altro.

Verso la metà degli anni ’50 in Europa il mercato delle auto è in forte fermento. Nel panorama italiano la parte del leone la fa la FIAT che nella categoria delle piccole ha una buona fetta di mercato con la storica 500, l’auto per tutti gli italiani, economica e spartana, ideata da Dante Giacosa. Forse il suo più grande successo, ma a guardar bene, solo uno (e non l’ultimo) di una serie infinita di veri e propri capolavori dell’ingegneria motoristica italiana. Un settore dove l’Italia è leader e dove sorgono continuamente piccole aziende, con grandi idee, forgiate in capannoni ricostruiti dopo la guerra nelle periferie di grandi e piccole città. Scintille creative e imprenditoriali che a volte danno il là per la nascita di grandi realtà aziendali e altre invece bruciano nello spazio di un prototipo. Si inseguono sogni, prosperità e ricchezza, ma si deve anche sollevare un paese su cui la guerra ha lasciato segni pesantissimi con i bombardamenti prima e con le tasse per la ricostruzione poi.

Tra le aziende che hanno bisogno di riconvertirsi dopo la guerra c’è la Fabbrica Italiana di Velocipedi Bianchi. Nata nel 1885 per volere di Edoardo Bianchi, è ad oggi la fabbrica di biciclette ancora in produzione più antica al mondo, ma tra le due guerre ha prodotto anche moto ed auto e, durante la seconda guerra mondiale, apprezzatissimi autocarri, in forza all’esercito italiano e alla croce rossa. L’azienda negli anni ’40 è florida e le commesse ricevute durante la guerra hanno tenuto alta la produzione ma non i guadagni, che saranno poi tassati per favorire la ricostruzione. Nel dopoguerra la Bianchi è troppo grande per continuare la sola produzione di biciclette (che rimarrà un eccellenza e legherà il suo nome, tra gli altri, a quello del Campionissimo Fausto Coppi), ma troppo piccola per competere con le grandi aziende italiane e straniere che hanno mezzi per fare ricerca, sviluppo e soprattutto marketing, nuova disciplina proveniente dagli Stati Uniti, fatta apposta per risvegliare o indurre bisogni nei consumatori italiani.

Alla guida dell’azienda c’è Ferruccio Quintavalle, personaggio definito “brillante”, che di fronte al bivio tra resistere e sognare, sceglie la seconda strada e nel 1955 decide di coinvolgere in un nuovo progetto il Commendatore Giuseppe Bianchi, Alberto Pirelli (figlio di Giovan Battista Pirelli, il capostipite e fondatore dell’azienda Pirelli) e un giovanissimo e ancora dedito alla bella vita, Gianni Agnelli, in vece e per conto del presidente della FIAT Vittorio Valletta (in carica dalla morte di Giovanni Agnelli, il “Senatore”). I tre trovano subito l’accordo e l’11 gennaio 1955, con un capitale iniziale di tre milioni di lire, nasce la Autobianchi, un nuovo marchio automobilistico, con base a Desio, che servirà alla Bianchi per rilanciarsi sul mercato, alla Fiat per lanciare e testare nuovi modelli senza rischiare il proprio brand e avendo un controllo su un eventuale concorrenza interna e alla Pirelli per vendere e distribuire pneumatici.

Proprio dai capannoni della Bianchi a Desio, nel settembre del 1957, con la sigla di progetto 110B, fissato su una bisarca, esce il primo esemplare di auto prodotta dalla Autobianchi, direzione Milano, Museo della scienza e della Tecnica (una vera e propria eccellenza italiana, ma anche europea, nel campo della tecnologia e dell’innovazione). L’auto è stata chiamata Bianchina, una “tutta indietro”, motore e trazione posteriori, 2+2 convertibile (ha il tetto in tela che si può aprire), ricca di cromature, con una buona tenuta di strada e gli interni molto curati. Una (piccola) auto di lusso, che ricorda la linea delle cugine di oltreoceano, che gli italiani sognano grazie ai film americani visti al cinematografo. Il telaio della Bianchina è lo stesso della 500, così come il motore. Ma tutto il resto è storia a sé, dall’abitabilità migliorata e portata a due adulti e due bambini (o un adulto, meglio se fantino), all’impianto di riscaldamento più efficiente, agli interni curatissimi. Unico neo l’impossibilità di alloggiare i bagagli all’interno del vano bagagli anteriore, in buona parte occupato dal serbatoio del carburante e dalla batteria, che rendono l’auto poco adatta ai viaggi.

La Bianchina piace, e tanto, sia alla stampa che poi al pubblico. Le vendite superano le aspettative e l’auto diventa la prima vera city car italiana prodotta su larga scala e dimostrando che in quegli anni gli uffici marketing sapevano fare il loro lavoro, mentre gli studi di mercato erano ancora piuttosto approssimativi.

Il successo dell’auto è dovuto al suo aspetto, un po’ frivolo, ma assolutamente originale, con due pinne posteriori, (inventate dal designer americano Harley Earl, che le aveva derivate dal Lockheed P-38 Lightning e che poi le aveva declinate sulle Cadillac), che facevano tanto “America” e che in Europa, su auto di quel segmento, non avevano uguali. Altri elementi di successo furono sicuramente la ricercatezza degli interni, con i sedili in “vinilpelle”, i tappeti in tinta con i sedili e i bassi consumi. Ma il vero motore del successo di mercato della Bianchina  fu la possibilità, per gli automobilisti, di acquistarla in “comode 30 rate”, grazie al finanziamento Fiat SAVA: poco più di ventimila lire al mese. Gli italiani negli anni ’50 scoprirono le rate e poterono comperare elettrodomestici, divani e mobili per “la sala”, quella buona, dove ai bambini non era permesso entrare e le sedie venivano lasciate con il cellophane.  Le rate della Bianchina permisero agli italiani di acquistare un’auto che sapeva di America: non per necessità (per quella c’era la 500), ma per piacere.

Della Bianchina solo il primo anno furono venduti 11.000 esemplari. Il successo commerciale diede il via alla declinazione dell’auto in una serie infinita di modelli, come la 4 posti, la Cabriolet, o altre che in qualche modo avevano a che fare con la cugina 500, come la versione Sport, il cui motore fu collaudato in pista per più di 160 ore da quattro piloti, tra cui un giovanissimo Mario Poltronieri, o la Panoramica, simile alla 500 Giardiniera.

Per la Autobianchi la Bianchina fu un successo, tanto che si arrivò, in alcuni casi, a sospettare addirittura un malcelato boicottaggio da parte della casa madre nella fornitura dei motori e delle parti meccaniche, quasi a voler ritardarne la velocità di produzione e la consegna. Il modello di business dietro la produzione dell’auto fu un’intuizione di Quintavalle, colpito dai lavori fatti da piccole carrozzerie, poco più che artigianali, come la Vignale di Alfredo Vignale (ex dipendente e allievo di Giovanni Farina, fratello di Pinin), che produceva auto fuoriserie per lo più su base Lancia, Cisitalia e Fiat, o come la Moretti S.p.a. di Giovanni Moretti, attiva fino al 1989, o la carrozzeria Monterosa, dove il genio di Mario Revelli di Beaumont (altro ex dipendente degli Stabilimenti Farina) ridisegnava, o meglio creava versioni panoramiche e giardinette partendo da telai Fiat. Quintavalle portò questo modello produttivo ai livelli più alti, senza sfruttare, ma migliorando quanto già prodotto dal colosso Fiat, affidando il progetto a Luigi Rapi e ai suoi designer.

Molto più che un’auto brutta e associata in maniera poco generosa al perdente per antonomasia ragionier Fantozzi. Il simbolo della voglia e della necessità di un paese di risollevarsi dopo la guerra, producendo e iniziando a consumare, respirando quello che all’epoca era un acconto di benessere e che sarebbe, negli anni a venire, cambiato in consumismo.

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