La Freccia del Sud: zitti e Mosca!

Pietro Mennea da Barletta e il trionfo nei 200 ai Giochi del 1980, quando è già l’uomo più veloce del mondo

Il momento che Pietro Mennea aveva atteso per tutta una vita è venuto alle 20.10 ora di Mosca, ora solare e dorata per il velocista azzurro, che ha coronato una carriera diffi cilmente eguagliabile con il suggello del successo olimpico. Avevamo scritto ieri che Sara Simeoni con la vittoria di sabato era forse diventata il numero uno dello sport italiano di ogni epoca; ora Pietro raggiunge Sara in questa classifica invidiabile e forse sale perfino un poco più su, perché la sua è stata una carriera durata più a lungo nel tempo, e ha avuto punte più esaltanti. Vedremo più oltre perché c’è un nesso, secondo noi, tra il successo della Simeoni e quello di Mennea, tra la posizione di leader che la ragazza aveva conquistato sabato e la corsa all’oro di Pietro. Per ora diciamo di una gara sofferta come poche altre dal velocista azzurro, che correva in ottava corsia con Wells alle spalle, pronto ad approfittare di ogni piccolo sbandamento di Pietro. Ed infatti Pietro, carente in avvio, si faceva subito agguantare dal poderoso britannico, che usciva in rettilineo con due metri di margine, mentre anche Leonard in prima corsia viaggiava come un diretto. Pietro impiegava una quarantina di metri per trovare il giusto assetto ma, quando lo trovava, ci faceva assistere alla più stupefacente rimonta mai vista nello sprint. La sua falcata diventava più potente, la sua mascella s’induriva: a cinquanta metri dal traguardo, tutti capivano che Wells non sarebbe più sfuggito all’azzurro affamato di vittoria. Poi il giro d’onore, l’inchino davanti alle poche bandiere tricolori distese in tutta la loro ampiezza nel cielo azzurro pallido, sempre con il dito indice della mano destra puntato in alto verso il cielo, per ringraziare chi lassù aveva assistito il velocista nel compiere la sua prodezza. Più tardi la premiazione, la solita bandiera olimpica, alla quale siamo ormai abituati, ma Pietro prima di salire sul podio andava vicino alle gradinate e sventolava per un istante una bandiera tricolore.

Mennea, l'uomo che muore e rinasce

Tecnicamente l’impresa di Mennea è grande, anche se su di essa pesano le assenze degli statunitensi; agonisticamente è grandissima, perché venuta in una gara molto valida: quanti altri velocisti, a un’ottantina di metri dal traguardo, avrebbero avuto ancora la fierezza per giocare tutte le loro carte? Moralmente, poi, è impresa superba, perché arriva quasi inattesa dopo un travaglio che aveva messo in dubbio addirittura la partecipazione alla gara stessa. Mennea aveva già gustato il bronzo sui 200 a Monaco nel 1972, quando aveva soltanto vent’anni. Aveva ottenuto soltanto un quarto posto a Montreal nel 1976, attanagliato da problemi psicologici di altra natura rispetto a quelli emersi qui a Mosca, ma pur sempre tali da inchiodarlo. Aveva qui l’ultima occasione per dare una collocazione storica precisa alla sua lunga presenza nello sprint mondiale, testimoniata da tre ingressi in finale in tre olimpiadi consecutive, ciò che mai nessun velocista era riuscito a realizzare. Tutto ciò, pur dopo il grande record di Città del Messico (19’’72). Ma i primati passano, le vittorie olimpiche restano. Ha sfruttato questa occasione prendendola per i capelli quando già sembrava sfumata per sempre. Soltanto in semifinale, tre ore prima della volata d’oro, aveva dato la sensazione d’esser tornato in possesso dei suoi mezzi. Ma prima della semifinale chi avrebbe puntato su di lui? In fondo con questi suoi alti e bassi Pietro non ha fatto che confermare se stesso, con le sue contraddizioni, le sue paure e le sue grandi doti; è un uomo che muore e rinasce, sempre diverso, una volta al giorno.

Cosa ha spinto Menne a gettare il cuore oltre l'ostacolo

Ma che cos’è che ha permesso a Mennea di rinascere a tre giorni di distanza da una dolorosa eliminazione nelle semifinali dei cento? Evidentemente una diversa condizione psicologica. Se quella del velocista azzurro fosse stata una malattia grave, nessuna medicina sarebbe riuscita in un tempo così breve a rimettere in piedi l’infermo. Soltanto i malanni della psiche sono misteriosi e imprevedibili, possono durare anni e possono scomparire in un’ora, se scatta nel cervello dell’individuo la giusta reazione. Avevamo scritto ieri, paragonando il fantasma Mennea alla realtà Simeoni, che forse l’acquisizione di certi traguardi extrasportivi come la tranquillità economica, la laurea, la fidanzata avevano arrugginito in Mennea quella che era sempre stata la molla vincente: la profonda rabbia dell’uomo del Sud che vuole conquistarsi la rispettabilità. Mennea gettava nelle sue gare di sprinter ogni forma di privazione e di frustrazione, soltanto con questa colossale rabbia addosso riusciva a chiedere il cento per cento ai suoi muscoli e ai suoi rifl essi. Ma ora, sia pure inconsciamente, era appagato: che gli restava da chiedere? Semmai ci teneva ancora a vincere per non guastare la sua immagine, per recitare una parte simpatica e anche ben remunerata, quella del più forte atleta italiano. Ma era una molla che faceva leva unicamente sull’ambizione, non più su un propellente miscelato con quelle che lui riteneva ataviche ingiustizie. E perciò non funzionava più. La celebrità e cioè l’appagamento di Mennea si notavano anche solo a guardarlo in viso: disteso, cortese con tutti. Dov’era andato l’atleta a volte anche antipatico e perennemente ingrugnito che si scaricava soltanto con le vittorie? Poi, si è detto, è scattato qualcosa nel suon cervello. Che cosa? Azzardiamo un’ipotesi: Mennea ha subito una frustata dalla medaglia d’oro della Simeoni. Il successo di Sara gli è servito perché gli ha tolto bruscamente il ruolo di leader dello sport italiano; Mennea ora aveva di nuovo una buona ragione per soffrire, per stringere i denti. Era un uomo appagato e sereno al quale però qualcuno aveva guastato appagamento e serenità. E ha trovato la spinta per combattere, per riconquistare quello che aveva perso. Soltanto così, o con qualche ragionamento similare, si spiega la trasformazione repentina dall’abisso di venerdì scorso all’oro di ieri. Poi naturalmente ci sono altre cause, che spiegano il sofferto successo; qualche filo grigio nei capelli c’è, dieci stagioni di attività ad altissimo livello hanno pur sempre lasciato il segno. E qualche malanno fisico alla schiena ha pure avuto il suo peso per togliere tempo all’allenamento e tranquillità al campione del mondo. Se Mennea fosse stato nelle condizioni psico-fisiche di Praga ‘78 (campionati europei) o di Mexico ‘79 (primato mondiale) non avrebbe battuto Wells soltanto a pochi metri dal traguardo e di una ventina di centimetri. Ma sono stati centimetri d’oro… Ora lo sport azzurro ha raggiunto nel bilancio dei successi l’Olimpiade di Monaco 1972 (5 medaglie d’oro): bisogna risalire al 1964 per avere risultati migliori. E nel contesto del bilancio dello sport azzurro c’è quello particolarissimo dell’atletica, che sta vivendo da ieri sera momenti di epopea: tre medaglie d’oro su venti titoli assegnati, siamo terzi alla pari della Gran Bretagna alle spalle dell’Urss (sette medaglie d’oro) e della Repubblica Democratica Tedesca (cinque). È roba da non credere ai nostri occhi.

 

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