Vernier: «Da Torino 2006 a ToRio 2016»

Il capo delle cerimonie di allora e di quest’anno: «In Brasile sfrutteremo l’esperienza dei "nostri" Giochi»
Vernier: «Da Torino 2006 a ToRio 2016»

TORINO - «Io non sono uno social, ma in questi giorni mi sono fatto prendere e ho postato anch’io foto di allora in “Più Dieci”, il gruppo creato su facebook per ricordate Torino 2006. Mi spiace solo non poter essere lì per la festa dell’anniversario». Andrea Varnier appare abbronzato e sorridente su Skype. Fuori, nelle strade, impazza il Carnevale. La paura per Zika non sta fermando nessuno. Chiamata Torino-Rio de Janeiro, ma anche un filo rosso olimpico. 2006- 2016, non sono un decennale. Sono Giochi da vivere, sempre. Con l’uomo delle cerimonie. Di allora e della prossima estate, come amministratore delegato della società nata dall’unione della FilmMaster di Marco Balich e di un gruppo brasiliano per organizzare apertura, chiusura e il viaggio della fiaccola di Rio 2016. «Sono qui da più di quattro anni: un pezzo di vita. Come quella di Torino 2006».

Ce la racconta?
«Inizia nell’aprile 2001, come responsabile Immagine & Eventi. Mi occupavo di Torcia, Cerimonie, Look, programma culturale e pubblicazioni. Il Look è stato forse il successo più grande. Ha cambiato la città con i colori, la percezione di Torino stessa. Lo dimostra il fatto che ancora adesso ogni tanto spunta fuori qualche pezzo. Ma sono state un successo anche le cerimonie e il viaggio della torcia attraverso il quale l’Italia ha scoperto i Giochi».

Dieci anni dopo di deve parlare per forza di eredità olimpica e fare un bilancio: quei Giochi hanno lasciato qualcosa?
«Sì. Sicuramente sì per la città, non per la montagna purtroppo. Lì s’è un po’ persa un’occasione, non c’è nella percezione dei Giochi. La pista del bob è chiusa, i trampolini non sono usati, come altri siti. Ma Torino è rinata, non è stata più la stessa. E quei Giochi ancora oggi nell’ambiente olimpico e non solo sono considerati in esempio da seguire. E io, se vogliamo, ne sono la dimostrazione vivente».

Ovvero?
«Prima di tutto io stesso sono diventato torinese. Sono veronese di nascita e allora venivo da Roma, dove lavoravo per Tim. Mi era piaciuto subito il progetto, l’idea delle Olimpiadi, il fatto che fossero a Torino era insignificante. E in più tutti gli amici mi davano del matto. Dicevano che da Roma a Torino era come...».

Rinchiudersi?
«Eh, più o meno. Invece io mi sono subito innamorato della città e l’ho vista cambiare, in meglio. Al punto che ho comprato casa e ci sono rimasto anche dopo i Giochi e una parentesi come consulente del Cio per Pechino 2008. Ho fatto il direttore di Lingotto Fiere. E a Torino tornerò finita l’avventura di Rio. E poi c’è un altro aspetto personale che dimostra quanto Torino 206 abbia fatto bel cose bene, quando sia un esempio».

Quale?
«Io e altri abbiamo fatto delle Olimpiadi un lavoro, siamo stati chiamati per portare la nostra esperienza in occasione degli altri Giochi. Il Cio ha riconosciuto la qualità di quella squadra e molti hanno lavorato per Londra, qualcuno per Vancouver e Sochi. E ora per Rio. Con me, nella società che guido ci sono cinque o sei reduci di Torino 2006, almeno tre torinesi doc. Come Fabrizio Audagnotto, che si occupava delle cerimonie, Sara Berruto che faceva il casting e ha lavorata anche a Londra 2012, Amedeo Ricottilli che seguiva il protocollo».

Insomma, tutto è bene quello che finisce bene...
«Non proprio. Eravamo più di seicento... La verità è che proprio il lavoro di quelle persone, così apprezzato allora, non sempre è stato valutato. E’ mancata la capacità di fare di più, di sfruttare ancora quanto maturato da quel gruppo. Tanti si sono persi per strada, gente di qualità. E’ triste».

Domanda scontata: il ricordo più intenso del 2006?
«Pensando alla ricorrenza mi viene in mente l’arrivo della fiaccola a Torino. Un trionfo. La città era piena di gente per le strade a seguire la torcia, cancellando le polemiche sulla Coca Cola. E poi il via della cerimonia d’apertura, con Jury Chechi vestito da sciamano metropolitano a suonare il gong martellando un’enorme incudine. Lì s’è sciolta la tensione. Anni di lavoro diventavano realtà. E tutto funzionava. Ma c’è anche un altro ricordo, personale».

Quale?
«Una sera a Medal Plaza in Piazza Castello il Cio mi consegnò un pettorale dei Giochi incorniciato. Era un quadro enorme. Casa mia era vicina, decisi di tornarci a piedi. Ci misi più di un’ora. Era una delle notti bianche, la città era invasa, non si riusciva a camminare. Bellissimo. Sentii che avevamo fatto qualcosa di grandioso».

Cosa non rifarebbe di allora?
«Abbiamo fatto tanti errori, ma nessuna recriminazione. A Torino siamo arrivati senza esperienza di Olimpiadi, ci siamo fatti molto da soli, con pochi stranieri. Ma quel gruppo, quelle persone hanno fatto la differenza. E’ la lezione più grande che ci ha lasciato Torino 2006». Una lezione portata fino a Rio 2016. Per ora. C’è già chi pensa a Roma 2024

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