Mennea, l’uomo dei sogni nel ricordo di Agostino

De Vita racconta l’atletica tra ricordi personali e suggestioni letterarie. Quell’incontro col velocista allo spettacolo su Di Bartolomei: «Che tristezza la superficialità»

Dai tempi di Omero al Novecento - e penso a Brera, a Montanelli, o a scrittori quali Buzzati, Cancogni, Calvino, Ungaretti e D’Annunzio - le voci della letteratura hanno riservato all’atletica leggera pagine sublimi. Regina dello sport, l’atletica, si distingue intanto per la varietà delle discipline. Compasso tra attitudine e applicazione: la maratona, la velocità, il mezzofondo, i lanci, i salti; ciascuna espressione evoca perfezione e armonia. Si amano in modo diverso: ruote, gomme e motori, dal ciclismo su strada o su pista, alle moto o all’automobilismo, il tiro a segno di pistola, fucile o arco, lo sci: attitudini che coniugano tecnologia e innovazione alle fatiche della “macchina” umana.

L’atletica è altro, sospesa tra lo spazio e il tempo: il corpo e le sue “evoluzioni”. Essenza dell’espressione di sacrificio, conquista di centimetro e di frazione di secondo. La mia amica Anna Lia, a dispetto delle cinquanta primavere, ha muscoli scolpiti e resistenza alla fatica, passa dalle Maratone di Firenze e Roma a “migrare” all’estero, per tornare alle nostre valli, ai piedi dell’Appennino o delle Alpi, cimentandosi persino nelle “cento chilometri”. Lavora in un caffè, ma quando corre “vive” e sente se stessa, senza età, dice che è così da sempre e nella solitudine rimanda vocazione alla leggenda di Maratona, la città che diede nome alla corsa, posta sulla penisola attica, teatro della vittoria (490 a.C.) di Miliziade contro i Persiani. Notizia della vittoria fu portata da Maratona all’Acropoli di Atene da Filippide, che percorse quarantadue chilometri senza fermarsi. Il soldato giunse, diede l’annuncio, e morì per lo sforzo.
La disciplina sportiva chiamata appunto “maratona”, indica corsa “limite”, in cui si mescolano senso “della vita e della morte”. Forse questo, della estrema fatica accostata all’impresa, si raccoglie significato dell’atletica. L’atletica è di ciascuno e di tutti, ed è strazio e suprema bellezza. Fanciulli o anziani, si pratica ovunque, movendo i nostri passi in successione rapidissima o compassata, che si corra o si sia in marcia, che si saltino ostacoli o siepi, che si possa persino “volare” a due, tre o sei metri da terra con un’asta, allo scopo di staccare in tre innocenti “passetti” in ascensione ad altezze indefinite. Voleva volare Icaro, e noi mortali rinnoviamo quel desiderio nella brevità di un istante e senza ali di cera.
Un paio di scarpette… c’è chi dice se ne possa fare persino a meno. Fu cosi per Bikila e la sua notte di incanto, con la città di Roma entusiasta e incredula, a piedi scalzi, come quando correva bambino in Etiopia: era l’Olimpiade del 1960.
Lo sport è sudore. Mi pare ascoltare “rampogna” di una voce di passato, atleta entrato nel mito, a me molto caro. Pietro Mennea. Ci incontrammo a Roma e poi a Salerno. Persona magnifica Pietro, di rigore e sapienza, di studio e abnegazione. Senza retorica si può dire: severo con se stesso e gli altri, con il desiderio di avvicinare il sogno, per divenire semplicemente tutto quanto “macchina umana” possa declinare allo sforzo: Mennea era e poteva essere solo Mennea. A dieci anni dalla sua scomparsa, in molti ricordano medaglie, record e quel suo sorriso bellissimo. Un corpo ossuto, gracile, “bocciato” anzitempo dai primi istruttori, gli stessi che piansero di commozione ai successi. Fu un incontro a Formia con Carlo Vittori, che firmò patto di amicizia tra due uomini straordinari, che fuori dalla politica e le chiacchiere da bar, portarono alchimia sontuosa allo spirito di Nike, dea della vittoria, menzionata per la prima volta da Esiodo nella Teogonia (383).
La macchina Mennea era sì meravigliosa. Erano scarsi i sessantotto chili di Pietro, indicavano “massa magra”, che tuttavia non ha impedito a quei suoi grandi occhi di guardare dall’alto in basso, ogni altro velocista al mondo. Lui, il “bianco più veloce di sempre”, atleta che pareva inossidabile, disposto a stupire gli altri e se stesso, stroncato miseramente da un infido male. Ma Pietro non è né sarà mai la sua morte, di un dolore composto e taciuto nel dettato del “decor” dei latini. Divenni suo amico nel ricordo di Agostino Di Bartolomei, nel 2000: occasione fu data da una piece teatrale, la prima in uno stadio, dinanzi alla Tribuna Montemario, con Flavio Bucci nel ruolo del padre. Ricordo indelebile. Tra le migliaia di spettatori: la Roma del primo scudetto e campioni di discipline diverse, oltre ad avversari, orgogliosi testimoni del singolare omaggio all’uomo e all’atleta. Pietro dopo venne a cercarmi, mi abbracciò fraternamente, da quel momento non so perché, giocando un po’ col mio nome, prese a chiamarmi “Ago”, di cui era stato amico. E io a ripetergli che ero felice di scambiare con la Freccia del Sud, che era stato mio idolo, quando avesse voluto, due parole e un caffè.
Quattro lauree, uomo colto, sensibilissimo, capace di battaglie civili e di imprese taciute, forse più grandi di quelle sportive. Pietro Paolo Mennea da Barletta, era nato il 28 giugno 1952: papà era sarto, mamma casalinga, tre fratelli e una sorella. Campione olimpico dei 200 metri a Mosca nel 1980, primatista mondiale. Si allenava 6 ore ogni giorno, lo fece per venti anni. «Se potessi tornare indietro, mi allenerei otto ore al giorno, non sei. La superficialità non porta da nessuna parte. Se lavori costantemente per ciò che ami, si vince sempre».
Vi è un gioiello dimenticato in pellicola del maestro Comencini: “il ragazzo di Calabria”. Volontè, uno dei miei maestri - che mi seguiva affettuosamente, era il 1987, nel mio lavoro su Aldo Moro, andato in scena al Teatro Olimpico - mi invitò su quel set col giovane Abatantuono, a Scilla, Polizzi e Motta San Giovanni. Incanto dei luoghi e poi tanta “corsa” sfrenata, gioiosa e vitale, icona come nelle imprese di Achille. Vi era nella sceneggiatura a firma di un maestro quale Ugo Pirro più di un riferimento a Mennea. L’Italia anche per questo accreditò al film di Fulvio Lucisano grande consenso popolare.
Non si può non pensare a Pietro, allora come oggi, ai movimenti delle piccole leve del protagonista bambino, Santo Polifemo, al suono dei “concerti per mandolini” di Antonio Vivaldi, alla domanda in sussurro di Volontè/allenatore al piccolo atleta: «Quando corri a cosa pensi?». Non si può non pensare a quel raccogliersi in una parola della risposta: «Sogno».

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