Bartali, il ricordo del figlio: «Mio padre, un eroe amato più di prima»

Il figlio Andrea racconta come Gino contribuì a salvare 800 ebrei: «Non disse mai nulla neppure a mamma Adriana»
Bartali, il ricordo del figlio: «Mio padre, un eroe amato più di prima»
TORINO - Come certi artisti, la cui grandezza viene percepita appieno dopo la loro stessa morte, la figura di Gino Bartali continua a raccogliere tributi e riconoscimenti che non lasciano indifferenti neppure i coppiani di più stretta osservanza. Si può discutere in eterno sul singolo traguardo o su quella bottiglia d’acqua sul Galibier, ma l’impegno di Bartali in tempo di guerra, che portò alla salvezza di oltre 800 ebrei, negli ultimi anni ha messo tutti d’accord’accordo, gettando una nuova luce su un campione che troppo sbrigativamente veniva etichettato come democristiano e alter ego bigotto di Coppi. A ricordarlo questo fine settimana sarà la Festa del Libro Ebraico, che domenica a Ferrara aprirà il programma degli incontri con un omaggio al campione toscano. Un tributo importante all’interno di un evento che vedrà tra gli ospiti anche il premio Nobel Patrick Modiano. E un’occasione per ricordare ancora una volta come accadde che un campione come Bartali (prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale aveva già vinto due Giri d’Italia e un Tour de France) divenisse un eroe, nascondendo documenti falsi sulla propria bici e offrendo alloggio alle famiglie ebree in fuga. «Papà non si sentiva un eroe - premette Andrea Bartali, il figlio di Gino che domenica sarà a Ferrara per portare la propria testimonianza -. Ha sempre rifiutato quell’etichetta e per anni non ha fatto parola di quello che aveva compiuto in tempo di guerra. Cominciò a raccontarmi qualcosa solo quando ero ormai un ragazzo, facendomi giurare di mantenere il segreto».

Anche con sua madre?
«Sì. Lei addirittura ha scoperto tutto solo nel 2005, quando il presidente della Repubblica Ciampi attribuì al babbo, postuma, la medaglia d’oro al valore civile».

E come reagì?
«Mi ricordo che disse: ma tu guarda quel birbante di tuo padre...».

Quasi le avesse nascosto una marachella... tutto all’insegna dell’understatement.
«Papà non ha rischiato la vita per appuntarsi una medaglia al petto. Lui si è impegnato perché glielo imponeva la sua coscienza di cattolico: a chiedergli di collaborare era stato l’arcivescovo di Firenze, Elia Dalla Costa. Mio padre era molto religioso, tanto che divenne terziario carmelitano».

In via del Bandino, a Firenze, nascose la famiglia Goldenberg, che aveva un figlio, Giorgio, poco più vecchio di lei...
«Papà non ha fatto in tempo a rivederlo, ma Giorgio negli ultimi anni è tornato in Italia, dopo essere migrato in Israele, ed è venuto a Firenze per raccontare personalmente a mia madre quanto importante fosse stato l’aiuto di papà per salvare lui e i suoi familiari».

Lei che ricordi ha di quegli anni?
«Io ero molto piccolo e poi nel dopoguerra, quando mio padre riprese a gareggiare, fui mandato a studiare in collegio. All’epoca la cosa non mi fece molto piacere».

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