
«C’è una vita da vivere» e «ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere»: così scriveva nel 1932 a Giulio Einaudi, Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 - Torino, 1950), in una lettera in cui esprimeva diniego di revisione di un testo. Era un appassionato di ciclismo, lo scrittore di libri come “La spiaggia”, “Il compagno”, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, per citare alcuni tra i titoli di celebri opere in versi e prosa. Nato nelle Langhe, in Piemonte dunque, terre che avevano esaltato Costante Girardengo e Fausto Coppi, di cui era stato grande ammiratore. La bicicletta era per lo scrittore non solo mezzo di locomozione e di «piccolo trasporto», ma piacere sommo ed espressione vitale di natura e «naturalezza». Andare è l’invito che è dato cogliere in molti dei suoi scritti: «Andando in bici passa il desiderio di bere e di fumare», «la bicicletta parla con una sua voce», queste alcune citazioni dalle pagine letterarie.
Cos'era la bicicletta per Pavese
Per Pavese la bicicletta era “summa” di quanto sano, ecologico, individuale e a un tempo collettivo, si potesse vivere. «Pedalare dunque perché nell’azione è tutto quanto noi abbiamo pensato, e quello che verrà». Metafora che torna alla “circolarità” della ruota, come al “tempo”, senso “perenne” che può assegnarsi all’esistenza umana, passare oltre con il “giro” dei cerchioni, con le gomme delle ruote, che “ingoiano” asfalto, sassi e terra, e con essi destino, fato, o provvidenza, tra passato e futuro, che al colpo di pedale si traducono intima “attesa”. Fumatore per diletto, Pavese, schivo, taciturno e coscienzioso, usava indifferentemente la pipa e le sigarette, che sono per lui in stagioni diverse della breve vita luoghi di pensiero, e poi intervallo e intermezzo delle complicate vicende esistenziali. Il fumo è per lo scrittore ciò a cui ricorrere per distendersi e lanciare “bizzarre traiettorie” tra memoria e profezia.
Le Langhe raccontate da Pavese
Se i “paradigmi” umani sono riconoscibili in tempo e luogo, ecco che le Langhe, cui già abbiamo fatto cenno, per Pavese significano infanzia e adolescenza, sfondo evocato nei romanzi, con descrizioni accurate delle persone e del luogo, «un versante lungo e ininterrotto di vigne e di rive, un pendio così insensibile, che alzando la testa non se ne vede la cima - e in cima, chi sa dove, ci sono altre vigne, altri boschi, altri sentieri - era come scorticata dall’inverno, mostrava il nudo della terra e dei tronchi. La vedevo bene, nella luce asciutta, digradare gigantesca verso Canelli dove la nostra valle finisce». E ancora in “La luna e i falò, «allora l’amico disse a me chi era Nuto e che cosa facesse. Raccontò che quella stessa notte, per farla vedere agli ignoranti, Nuto s’era messo sullo stradone e avevano suonato senza smettere fino a Calamandrana. Lui li aveva seguiti in bicicletta, sotto la luna, e suonavano così bene che dalle case le donne saltavano giù dal letto e battevano le mani e allora la banda si fermava e cominciava un altro pezzo». Ecco la bicicletta e la visione del primo dopoguerra, di villaggi e paesi, di gente semplice che va a passo svelto perché il tempo non “sfugga di mano” o ancor meglio montato su di un sellino sia capace sfrecciar via veloce su sentieri assolati o in stradine appena illuminate dalla luce della luna.
Gli anni della Guerra
Sappiamo che Cesare Pavese negli anni della guerra, da “sfollato”, trovò rifugio nel Monferrato, tra Casale e Serralunga di Crea, si può leggere infatti in “La casa in collina”: «Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere (…) e le strade formicolavano di gente, povera gente che sfollava a dormire magari nei prati, portandosi il materasso sulla bicicletta o sulle spalle, vociando e discutendo». Viene da chiedersi cosa potesse trovare Pavese, prosatore incline al mito e al “sogno”, come dimostrano le pagine del libro, a lui più caro, “Dialoghi con Leucò”, in una espressione “dinamica” dell’umano, come è appunto la bicicletta. Citata sovente in affreschi di parole, fluenti come i fiumiciattoli e i torrentelli dei suoi luoghi. Lui che viceversa, perdeva se stesso in quel tratto dell’umano, che il neurobiologo Lamberto Maffei indicava recentemente nel suo “Elogio alla lentezza”, in cui spiegava come tutti noi siamo “macchine lente” che aspiriamo dall’antichità fino al XXI secolo, a rischio di frustrazioni insensate alla “chimera” della velocità. Non sappiamo quale alchimia e quale mistero conducano uno scrittore come Pavese, all’ebbrezza dell’andare in bicicletta, il mezzo che è invenzione umana, “invenzione” meccanica, e si traduce nella magnifica attitudine del “ciclismo”. Una ipotesi, nel formulare risposta, può venire dallo sforzo del “correre in bici” nel suo tempo, che fatte dovute proporzioni, potremo assegnare ancor oggi alla disciplina e al rigore. Non vi è atleta, oltre il ciclista, eccezion fatta per il maratoneta, che prolunghi impegno psicofisico fino al limite del “possibile” umano.
L'amicizia con Elio Vittorini
Elio Vittorini (Siracusa, 1908–Milano1966) intimo di Pavese, buon amico di mio zio Corrado (Noto, Siracusa 1905-Roma, 1987), con cui fondò “Milano sera” negli anni del dopoguerra, raccontava di “passeggiate in bicicletta” nel 1949 e di memorabili gite di campagna con lo scrittore, alla scoperta dei “profili” del verde nelle varie tonalità, stampigliato in un cielo come dipinto dai rossore del tramonto. Sono trascorsi settantacinque anni da quel mattino del 27 agosto del 1950 in cui Cesare Pavese si tolse la vita nell’albergo Roma. Natalia Ginzburg (Palermo, 1916-Roma,1991) ne rese un ritratto indimenticabile nel volume autobiografico “Le piccole virtù” pubblicato da Einaudi nel 1963, racconto breve dal titolo “Racconto di un amico”, vale riprenderne uno stralcio: «Nella città che gli rassomiglia, noi sentiamo rivivere il nostro amico dovunque andiamo; in ogni angolo e ad ogni svolta ci sembra che possa a un tratto apparire la sua alta figura dal cappotto scuro a martingala, la faccia nascosta nel bavero, il cappello calato sugli occhi». Noi pure vogliamo ricordarlo così, magari con sullo sfondo le Langhe, ma con una bicicletta alle spalle… una Wilier placcata in rame, modello tra i più eleganti, fra quelli che circolavano negli anni Quaranta. Sappiamo quanto lo scrittore amasse il “trabiccolo”, detto anche con arcaismo al maschile: “cicletto”. Pavese ne era innamorato, giungendo persino a consacrare la bicicletta, “regina” del neorealismo, nella sua recensione entusiastica, del gennaio del 1949, di “Ladri di biciclette”, indicando in Vittorio De Sica, «il più grande narratore italiano contemporaneo». Storia appunto di “biciclette trafugate”, di ricchezza e umana povertà.
*regista, autore, attore