La rivoluzione di Muhammad Ali attraverso lo sport

Gettò nel fiume l'oro olimpico per il razzismo. Per il no al Vietnam perse tutto e finì in prigione
La rivoluzione di Muhammad Ali attraverso lo sport© aldo liverani

TORINO - Muhammad Ali ha combattuto per la libertà, ben più che per i soldi. Ne ha perso, anzi. Non ha mai detto, ma ha certo pensato che la rivoluzione comincia tutte le mattine davanti allo specchio. Ha capito - prima di tutti - che lo sport potesse essere un mezzo. Per cambiare la vita, con lo stesso spirito, provocatorio e razionale con cui saliva sul ring. Sempre con un fine, mai banale. Perciò ognuno di noi ha un ricordo indelebile del più grande. Che ha cominciato presto. A chi gli stava rubando la bicicletta urlava di fermarsi per una lezione. Che ancora non sapeva dare. Muhammad Ali colpiva per un motivio. Ha eliminato Cassius Clay: «E’ un nome da schiavo, non l’ho scelto io e non lo volevo. Io sono Muhammad Ali, un nome libero, e insisto che lo si usi quando si parla di me e con me». 26 febbraio 1964, la nuova vita ufficiale. Ma già Malcolm X era al suo fianco durante la preparazione al match con Sonny Liston. E lui a ricordargli ogni giorno che “il cristianesimo è impostato sulla paura”. Lui vince, il 25, e dice «Sono il re del mondo! Sono carino! Sono cattivo! Ho colpito il mondo, ho scosso il mondo». Eppoi annuncia la conversione.

«LE MEDAGLIE NEL FIUME» - Ma c’era già stato un segnale, perché il precedente Cassius Clay vedeva le ingiustizie a Louisville. E quando non le vedeva gliele mostrava il babbo, che gli racconta dell’omicidio di Emmett Till. L’animo del ragazzo si ribella. Tornato negli States con la medaglia d’oro, aveva provato ad entrare in un ristorante della sua città, Louisville, dove però c’era scritto “White people only”. Ma lui è campione olimpico, pensa che non lo cacceranno. Invece lo cacciano. Lui arriva al fiume Ohio e butta via la medaglia. La fine di Clay e l’inizio di Ali è cominciato. Anni dopo, in una intervista a Playboy, Ali dirà anche: «Se l’America non darà giustizia al popolo nero, sarà bruciata. Siamo stanchi di essere schiavi, di non avere nulla. Stanchi di avere il Paradiso solo dopo la nostra morte. Vogliamo qualcosa adesso, subito».

VIDEO - IL TITOLO DEL MONDO DEL 1974

«RENITENZA ALLA LEVA» - Stavolta e prima, parlano i fatti per lui. E’ chiamato al servizio militare per i Vietnam. E lui rinuncia. E’ campione del mondo, sa che perderà tutto, che rischia la prigione. E’ il 20 giugno 1967, l’America ribolle, l’anima del mondo è sveglia e vuole cambiare. Lui dice no e un tribunale di Houston lo condanna a cinque anni di prigione e una forte multa. Solo la galera, nessun pugile può batterlo. Otterrà di nuovo la licenza tre anni dopo. «Hanno fatto ciò che ritenevano giusto, e io ho fatto quello che pensavo giusto». Ali è un simbolo, si trasforma in icona vivente: «io non ho nulla contro i Vietcong, non mi hanno mai chiamato negro e non hanno linciato i miei fratelli. Ci mandano a combattere guerre che non sono nostre». Lo dice il 17 febbraio 1966. Partendo per questo presupposto, la prigione è niente, in fondo. Ma è molto di più la rinuncia alla fama, la gloria, il denaro. Quanti incontri avrebbe vinto e ricche borse intascato in quei tre anni? Il fatto è che lui non vuole una foto come quelle di Liston e Patterson a fianco di preti e consiglieri bianchi. Quando torna a combattere i suoi match sono qualcosa di più e d’altro. Perché Ali lotta per l’uguaglianza e per i diritti civili. E lui si presenta come tale.

FOTO - IL MITO IN DIECI FRASI

Definisce Joe Frazier campione dei bianchi. Lui lo è invee del suo popolo. Perciò Frazier riceve addirittura minacce anonime. Mentre ad Ali scrive il filosofo Bertrand Russell: «Cercheranno di spezzarla perché lei è il simbolo di una forza che non riescono a distruggere, della ritrovata consapevolezza di un popolo deciso a non lasciarsi più massacrare e degradare». Ali conquista gli intellettuali. E trasforma i suoi match in manifestazioni politiche. Altro non diventa il mondiale contro Foreman. Preceduto da un concerto che raccoglie Manu Dubango e Miriam Makeba, artisti e attivisti. Foreman è infortunato, match rinviato. Ma il giorno del combattimento il pubblico, tutto urla: «Ali buma ye». L’impegno prosegue durante e dopo la carriera. Nel 1983 in un sermone in una chiesa apostolica, Ali dice: «Perché tutti gli angeli sono bianchi. perché non c’è nessun angelo nero?». La ribellione è divenuta rivoluzione. E alla fine ha conquistato tutti. Ali è personalità portiva del secolo per la Bbc. La sua battaglia per i diritti è battaglia per la dignità. Anche nei confronti della malattia. Ha vinto per l’umanità, Ali.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Loading...