
La prima a scendere in pista ai Mondiali di Saalbach è la nuova regina di Coppa, nostra signora della polivalenza e della vittoria declinata in tre specialità. Non nella prima caccia all’oro, il Team Event, ma nella prima prova della discesa iridata. La nuova frontiera di Federica Brignone, che lasciato a La Salle il pettorale rosso di leader della specialità in Coppa si tuffa nella nuova sfida con Sofia Goggia a caccia di pepite nella miniera ormai infinita della Valanga Rosa. Obiettivo velocità (giovedì superG, sabato discesa), ma più concretamente chiudere il cerchio con il suo primo amore, il gigante dell’argento al debutto, 14 anni fa a Garmisch. Traguardo di tappa (non certo finale) fissato per giovedì 13. Tre assi in mano da giocare. Come al solito a carte scoperte, senza bluff. E come avviene ormai da tempo con la serenità di chi va a caccia affamata, ma sapendo dove e come affondare le sue zanne d’acciaio.
Allora Federica, pronta al suo settimo Mondiale?
«Sì, pronta. Reduce da due buoni allenamenti a Tarvisio e soprattutto da qualche giorno di a casa per staccare la spina mentalmente. Mi sono riposata di testa ma tenuta in forma divertendomi senza pensare alle gare. Salite con le pelli e discese in neve fresca nei boschi tra panorami meravigliosi della mia Val d’Aosta. Una goduria».
Nuova Federica, sempre sorridente, a parte un piccolo down a Plan de Corones…
«Appunto. Troppe gare ravvicinate in Italia, troppi impegni, troppe richieste, troppe aspettative. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni, è quella che i risultati arrivano se sei serena, libera di testa».
Come quattordici anni fa, quando ventenne colse l’argento in gigante al suo primo Mondiale.
«Garmisch 2011. Se ci penso non mi sembra che sia passato tanto tempo, anzi. Ricordo con tenerezza come fosse ieri un campionato bellissimo, frutto di un avvicinamento bellissimo. Ne ho parlato con Elena (Curtoni, ndr). Noi due qui ora e lì allora… Costruimmo un grande Mondiale sullo Zoncolan, con un ottimo clima di squadra. Io argento, Denise (Karbon, ndr) quarta, Manuela (Moelgg) sesta in gigante… Ero una ragazzina, non sapevo neppure cosa aspettarmi. Per quello ero molto tranquilla e il Mondiale l’ho vissuto bene. Nessuna si aspettava nulla da me. Adesso invece so esattamente quello che sto facendo».
E si aspettano da lei la, anzi, le vittorie.
«Ma io sono arrivata a Saalbach ugualmente serena, con l’approccio di chi vuole prendere quello che viene come viene, pur sapendo che sono qui per fare qualcosa di importante, per giocarmi delle medaglie. So però altrettanto che per raggiungere i miei obiettivi devo performare al massimo e che in questo momento sto bene sugli sci, sto bene fisicamente e sto bene mentalmente. Ho il cuore leggero, sono contenta di vivere un altro grande evento. Insomma, ho tutte le carte in tavola per ottenere degli ottimi risultati».
Due anni fa a Meribel sfoderò la tigre sul casco, diventato il suo simbolo: ha qualche novità in serbo?
«No, niente di nuovo e di particolare, anche perché quella sono io. Una tigre che ha ancora fame».
A trentaquattro anni come fa?
(sorride) «A parte che non sono sola. Lasciamo stare la Vonn che ne ha quaranta, ma Gut, Sofia, Hector, Duerr, Stuhec, Huetter… siamo tutte lì. Tante ultra trentenni. Molto è cambiato il modo di prepararsi, con una cura al dettaglio che prima non c’era. Tutto s’è evoluto, anche il modo di gestire i problemi fisici. Io stessa sono cambiata negli anni. Però è anche vero che la nostra generazione è cresciuta in modo diverso da quella che sta arrivando ora ad alto livello. Emergere per noi era molto più tosto. Nel primo primo superG di Coppa del Mondo avevo il 60 e non ero tra le ultime a partire, ora a malapena arriviamo a 50 iscritte».
E noi ci godiamo la Valanga Rosa.
«Non siamo solo io e Sofia. Abbiamo sempre avuto ragazze che andavano forte, davanti e dietro. Penso sia la chiave. Per prenderci il nostro posto abbiamo dovuto combattere. E questo lungo momento positivo, nel quale ci sproniamo a continuare a migliorare, è uno stimolo e un esempio per le giovani».
Pensando anche al Sinner che vince e deve staccare per riprendersi, cosa significa essere il numero 1?
«So quello che prova Jannik. So quanto sia faticoso diventare il numero 1 e più ancora quando lo sia restarci, il lavoro che c’è dietro per arrivare a un traguardo del genere. Ma quando ci riesci, tutto questo è ben ripagato. E non parlo di soldi, penso al punto di vista emotivo. Poi, certo, la pressione è fortissima, ma siamo noi i primi a mettercela. La vuoi».
Sinner ha detto che la gioia per le vittorie è minore del dolore per la sconfitta. D’accordo?
«L’ho provato, molti intensamente. Io trovo che sia naturale in un campione, perché dà anche il concetto della prossima sfida, di proiettarsi sempre avanti, alla prossima gara. Dalle sconfitte poi impari tanto, io ho imparato tanto. A me bruciano così tanto che mi fanno subito tornare a lavorare ancora di più perché non si ripetano. E l’unico modo per farlo è migliorare, cercare di vincere la volta dopo. E le vittoria arrivate così, dopo una sconfitta, ti danno ancora di più».
Qui non potrà difendere l’oro della combinata individuale che non c’è più, sostituita da quella a squadre, ed è vice campionessa di gigante…
«Parto con la velocità, che mi sta dando tanto appunto dopo averci lavorato tanto. Anni. Una gara per volta. Poi non credo che farò la combinata a squadre perché vorrei preparare bene il gigante. Ci tengo. In questo periodo abbiamo fatto tanta velocità, preferisco un giorno di riposo e uno di allenamento in più».
Poi si ritufferà sulla Coppa, che guida alla caccia del bis di quella storica del 2020: come ci si resetta?
«Viene da sé, con l’esperienza. Così come non è che mi concentro in un altro modo ora perché sono ai Mondiali. Io vado afare una gara di sci. Qui come poi in Coppa. Non c’è nulla di più sbagliato che cambiare la propria routine o il proprio atteggiamento in base alla gara o nel giorno della gara. Io faccio tutto nello stesso modo. A questi livelli paga». Ruggisci, scia, vinci.