Padovano, dramma lungo 15 anni: "Mai finanziato traffici di droga"

L'ex bomber: "La mia unica colpa è stata prestare a un amico 36 mila euro per un cavallo!"
Padovano, dramma lungo 15 anni: "Mai finanziato traffici di droga"© AG ALDO LIVERANI SAS

L’incontro, il tempo di una partita di calcio, avviene nello studio torinese dei suoi avvocati. Al tavolo riunioni, tra Tuttosport e Michele Padovano, uno schermo trasparente alto meno di mezzo metro di plexiglass: per il covid. La mente scatta ai vetri divisori del carcere nel parlatoio. Non è un cortocircuito. Non è un caso. Leggendo capirete perché.

Buongiorno Michele Padovano. Riavvolgiamo il nastro: la sera del 10 maggio del 2006, 15 anni fa, inizia il suo incubo che non è ancora terminato. Come e dove?
«In quel periodo ero il Direttore Generale dell’Alessandria che militava in D. Avevo finito una cena al ristorante con amici quando tre volanti civetta mi bloccano davanti all’ospedale Maria Vittoria di Torino. Il destino ha voluto che tutto iniziasse proprio dove sono nato e di fronte a dove mi sono sposato: dall’altra parte dello slargo infatti c’è la chiesa di Sant Alfonso! Subito ho pensato che si trattasse di Scherzi a parte. Poi, per i modi e i tempi che si allungavano ho capito che non era così. Ma non capivo. Mi portano a casa dove c’era mio figlio di 14 anni e mia moglie per prendere gli oggetti personali ed effettuare una perquisizione e quindi andiamo nella caserma dei carabinieri. Alle 4 del mattino mi trasferiscono nel carcere di Cuneo in isolamento, dove resto 10 giorni. Non ho visto l’aria, il cielo, non ho fatto una doccia: c’era un turca e un lavandino. Mangiavo giusto una mela. Poi un ispettore mi dice di prepararmi: io felicissimo penso che l’equivoco finalmente si è risolto e invece mi caricano ammanettato su un blindo, entro nella gabbietta e dopo oltre 3 ore arriviamo nel carcere di Bergamo, reparto speciale».[...]

 

Cosa vuole dire reparto speciale?

«Ci sono restrizioni maggiori. Tutto il giorno stai nella cella che è chiusa, per 20 ore. Solo dalle 9 alle 11 e dalle 13 alle 15 hai le ore d’aria. Ci sono rimasto quasi tre mesi».

E poi?
«Mi mandano a casa agli arresti domiciliari dove ci resto 8 mesi per passare poi all’obbligo di firma tutte le sere in caserma per altri tre mesi».

Ma lei quando ha potuto raccontare la sua versione?
«Dopo circa due mesi dall’arresto sono stato ascoltato dal pm a Torino per poi riportarmi a Bergamo».

Questa spada di Damocle del verdetto durerà 5 anni perché la sentenza di 1° grado giunge a dicembre del 2011. E qui viene condannato a 8 anni, 8 mesi e 15 giorni per traffico internazionale di droga. Poi altri 9 anni di attesa per il verdetto di secondo grado dove la pena è ridotta a 6 anni e 8 mesi. Quindi, dopo un
anno, ovvero a metà di questo mese, ottiene in Cassazione il dispositivo di annullamento della sentenza per cui il processo d’appello ora deve essere rifatto.
Quanto l’ha cambiata questo dramma e c’è qualcosa in cui paradossalmente l’ha migliorata?

«Mi ha cambiato tantissimo ovviamente, ma in effetti sono migliorato perché ho capito chi erano le persone che veramente contavano e mi hanno dimostrato di volermi bene: la famiglia. Mi sono sempre rimasti vicini, gli amici e pseudoamici sono spariti da un giorno all’altro. Non gliene voglio fare una colpa ma io mi sarei comportato diversamente. Basta una telefonata, un gesto, una lettera. Evidentemente ero circondato da persone che stavamo con me solo perché ero
un ex giocatore popolare. Ho fatto pulizia, ora con me c’è solo chi vuole davvero bene a Michele».

Cosa ricorda di quei tre mesi di carcere?
«Stare in cella sapendo di non avere fatto nulla di male, fa malissimo. Uno non può nemmeno immaginare quanto. Ero finito in una disgrazia e volevo
comunque trovare un lato positivo e così ho sperimentato l’umanità dei detenuti. Forse c’è stata un po’ di attenzione nei miei riguardi perché sono
 finito in cella con un detenuto che era lì da moltissimi anni e di conseguenza era ovviamente molto rispettato da tutti i carcerati. Quando poi è uscito l’ho sentito, prima gli mandavo le tute, o dei pacchi perchè quando arrivano in carcere, è una gioia pura. Ora sento ancora per messaggio un altro detenuto che faceva socialità».
Cos’é?
«Veniva nella cella a mangiare con me, si poteva stare insieme dalle 18 alle 20».

Cosa vuol dire vivere 15 anni senza libertà vera con il terrore di finire in carcere?
«Io ho vissuto una carriera fantastica da calciatore e quando mi chiedevano cosa si prova dopo un gol importante io dicevo sempre che l’emozione era così bella e forte che non esistevano parole per poterla descrivere. Lo stesso posso dire per questi anni in cui non ho più potuto sentirmi un uomo libero: troppo
brutto. Bisogna provarla sulla tua pelle per capire. Soffri per te, per tuo figlio e tua moglie. Questa storia ci poteva distruggere completamente ma siamo stati forti. Tutto è stato poi peggiorato dal fatto che il mio mondo, quello del calcio, mi ha girato le spalle. Io chiedevo solo di lavorare, ripartendo anche dal basso, invece niente e solo illusioni. Ho contattato un po’ tutti. Un peccato perché il calcio era ed è la mia passione. Una volta sono stato ricevuto da un dirigente che mi ha fatto aspettare 4 ore, mi ha proposto di diventare capo osservatore, accettai entusiasta ma poi non si è mai più fatto sentire. Ora con mio figlio gestiamo un parco giochi per bambini a Rosta alle porte di Torino. Abbiamo aperto nel settembre 2019 e siamo partiti bene anche se poi il lockdown ha rallentato tutto».

Arriviamo al cuore di questo incubo. Lei ci è finito dentro per quale ragione?
«Io presto 36 mila euro a un caro amico di infanzia che mi disse che gli servivano per acquistare un cavallo. In quello stesso periodo poi lui faceva anche
altro ma io non c’entravo nulla con le sue altre attività. Era cresciuto con me da piccolo a Druento alla periferia di Torino. Ha dichiarato che quei soldi li ha utilizzati per il cavallo ».

Lei perchè e dove ha iniziato a giocare a pallone?
«Perché non ne potevo fare meno. Avevo 5 anni, al Luciano Domenico, un oratorio di Torino. Venne una persona che mi chiese se mi sarebbe piaciuto
giocare in un campo vero. Così iniziai e dopo un po’ mi prese il Vanchiglia, poi il Barcanova. A 16 anni eccomi in serie C al Ravenna e iniziai quindi
a girare l’Italia per salire sempre di più in su, sino alla Serie A e la Champions ».

Per quale squadra fa il tifo?
«Il Toro».

Ha giocato in tante squadre, ma mai con i granata!
«Ci sono andato vicino. Quando giocavo nel Napoli e sapevo che sarei andato via mi presentai negli uffici prima di Borsano e poi di Goveani dicendo:
“Sono tifoso granata, mi fate giocare nel Toro?”. Mi dissero “Sì, grande!”. In realtà non chiamarono mai nè il mio procuratore Beppe Bonetto nè il sottoscritto. Andai così al Genoa e il destino volle che sfidando il Toro feci gol, tra l’altro mi capitò spesso anche in seguito con altre maglie».

A metà gennaio come ha vissuto il giorno in cui ha saputo che la Cassazione aveva annullato la sentenza di secondo grado? Non fosse avvenuto, l’aspettava il carcere per oltre sei anni!

«E’ stato il giorno più bello della mia vita dopo quello della nascita di mio figlio! Ci tengo a ringraziare i miei avvocati Michele Galasso e Giacomo
Francini che hanno svolto un lavoro egregio ed eccezionale. Quando leggevo il loro ricorso piangevo leggendo ogni pagina. Io non c’entro nulla con questa vicenda e con l’accusa di traffico internazionale di droga. Quei soldi li avevo prestati affinchè comprasse quel cavallo».

Ce lo racconta questo 15 gennaio dove in parte è rinato? 

«Ero agitato, in casa, con mia moglie Adriana e mio figlio Denis che ora ha 29 anni. Ero al telefono con gli avvocati e avvertivo in loro una certa tensione e questo mi agitava ulteriormente. In realtà volevano avere il cellulare libero per cui mi chiudono la linea perché, ma io non lo sapevo, avevano la chiamata in arrivo da Roma. In quel momento io mi sono sentito morto. Passa meno di un minuto, mi richiamano e urlano «Annullato!». Io però intendo al contrario il significato per cui mi sento crollare il mondo addosso e mi vedo costretto ad andare in carcere. Avevano annullato la sentenza e non il nostro ricorso!
Appena me l’ hanno spiegato sono diventato l’uomo più felice della terra. Ci siamo abbracciati io, mia moglie e mio figlio e abbiamo iniziato a piangere!
E non poco.».

Adesso si ricomincia appena verrà istruito il nuovo processo di appello. Cosa si aspetta? 

«Mi aspetto l’assoluzione completa perché io è dal primo giorno che lo dico che sono innocente. Ora posso tornare a sperare. Non c’entro nulla con la droga».

Dal mondo del calcio nessuno si è fatto vivo dopo la notizia della Cassazione di metà gennaio? 

«Gianluca Presicci, mio ex compagno nel Cosenza. E di quella squadra anche Schio. Insieme abbiamo giocato a fine Anni 80. Non ci sentivamo da 20 anni. “Ti dico solo che ti auguro di uscire da questo incubo”. Mi ha fatto un piacere enorme. Che ricordi di quei campionati. Era un difensore di quelli vecchia maniera: ricordo che anche prima degli allenamenti i marcatori come lui “affilavano” i tacchetti. Persone ruspanti. Vere!».

 

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