Evra e l'omosessualità nel calcio: "Se parli sei finito"

L'ex Juve e Manchester United rivela: "Almeno due gay per squadra, ho giocato con molti di loro che si sono aperti con me"
Evra e l'omosessualità nel calcio: "Se parli sei finito"© Reuters

PARIGI (Francia) - "Quando ero in Inghilterra, hanno portato qualcuno a parlare con la squadra dell’omosessualità. Alcuni dei miei colleghi hanno detto 'è contro la mia religione, se c’è un omosessuale in questo spogliatoio, fategli lasciare il club' e altri commenti. A quel tempo, dissi, 'stai zitto'. Ho giocato con giocatori gay. Faccia a faccia, si sono aperti con me perché hanno paura di parlare diversamente. Ci sono almeno due giocatori per club che sono omosessuali ma nel mondo del calcio, se lo dici, è finita". Così Patrice Evra ha parlato del tema omosessualità in una intervista rilasciata a Le Parisienne. L'ex Juve e Manchester United quando parla non è mai banale e anche in questa occasione ha voluto dire la sua, toccando temi importanti che restano un tabù nel mondo del calcio.

Evra e l'omosessualità nel calcio: "Se parli sei finito"

Un'analisi lucida quella di Evra che è tornato anche sugli abusi subiti in passato: “Devo testimoniare per spingere ragazzi e ragazze vittime di violenze a non chiudersi nel silenzio. L'ho raccontato non tanto per me, ma per chiunque si trovi nella mia stessa situazione di quando fui stuprato da 13enne. Ho tenuto dentro tutto per anni fino a quando, guardando una trasmissione televisiva sul tema, non scoppiai in lacrime e confessai tutto a mia moglie. Bisogna sempre parlare e denunciare chi commette tali atti, anche se i colpevoli sono dei familiari, per non vivere nel trauma". In chiusura una riflessione, come sempre non banale su: "Quando è venuta fuori la storia della Superlega tutto il pianeta calcio ne ha parlato, con prese di posizioni radicali. Mi sono chiesto perché non si fa lo stesso per combattere il razzismo. Semplicemente perché non c'è in gioco denaro. Non è una soluzione vietare ai razzisti di andare allo stadio. Bisogna invece parlarne nelle scuole, nelle famiglie”.

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