Paolo Rossi, Veltroni: “I gol, il sorriso, un’Italia più bella. Che film, Pablito”

Arriva al cinema “È stato tutto bello”, l’opera su un campione che ha fatto innamorare un paese e conquistato il mondo: l’intervista al regista
Paolo Rossi, Veltroni: “I gol, il sorriso, un’Italia più bella. Che film, Pablito”© ANSA

Le favole nascono per essere raccontate e ascoltate decine e decine di volte, non le rovina mai il conoscere già il finale e lo sviluppo della trama, prevale sempre l’incanto della narrazione. Paolo Rossi è la nostra favola più bella dal Dopoguerra a oggi e Walter Veltroni l’ha racchiusa in un film dolce, struggente, ottimista. E, sì, pieno di nostalgia perché il racconto di Pablito consente di affrescare uno sfondo meraviglioso, nel quale lo spettatore viene rapito, finendo in un’altra Italia, che non ha più voglia di lasciare quando arrivano i titoli di coda e viene catapultato in quella di oggi. È un film di calcio che racconta la storia sociale del nostro Paese, ricordandoci che siamo stati felici, magari non perfetti, ma certamente migliori.

Buongiorno Veltroni, che belle, per esempio, le lettere di Paolo Rossi a Don Aymo, nelle quali il giovane giocatore della Juventus confessava l’altro lato della sua favola di giovane campione della Juventus.

«Sono lettere di depressione, di dubbi esistenziali di un adolescente che ha lasciato la sua piccola squadra di Prato, la Virtus Cattolica. Obbligato a diventare adulto a 16 anni, incappando in tre infortuni e relative operazioni al menisco, vive i tormenti di chi teme di sacrificare la propria gioventù per un sogno che non si realizzerà. Tuttavia resta sempre salda la forza di volontà: un altro avrebbe mollato, lui no. Ma la sua è una determinazione gentile, mai brutale: volontà e dolcezza, c’è tutto Paolo Rossi in quelle lettere».

Il giovane Paolo Rossi, quello che la Juventus intuisce essere un fuoriclasse grazie a un altrettanto giovane Luciano Moggi.

«Ho parlato con Tardelli e anche con Fabio Capello. Entrambi lo avevano battezzato al suo arrivo a Torino. Unanimi dicono: si vedeva immediatamente che era di un’altra dimensione tecnica».

Il fratello Rossano è una figura toccante del film, le sue testimonianze, sempre sull’orlo della commozione, disegnano il Paolo Rossi più intimo.

«Di Rossano impressiona anche la somiglianza fisica con Paolo e quel modo di parlare e porsi con garbo antico. Lui era un centravanti di quelli robusti che segnavano un sacco di gol, la Juventus aveva preso anche lui, ma alla fine non ha sfondato. Sono molto coinvolgenti i racconti dell’infanzia con Paolo, delle notti abbracciati per non sentire il freddo, delle scarpe da lucidare sempre. “Se hai la testa a posto e le scarpe pulite puoi andare dove vuoi” è lo splendido mantra del loro papà. Ed è la fotografia di un’Italia bella, popolare e piena di sogni».

Giusto. E infatti sorge spontanea una domanda: Paolo Rossi e quell’Italia possono ancora ispirare le nuove generazioni? Possono capire, i giovani? L’impressione è che la storia negli ultimi vent’anni sia corsa troppo velocemente, lasciando assai distante quell’epoca, incomprensibile per un adolescente di oggi.

«Le generazioni degli Anni 50, 60 e 70 sono state le generazioni della speranza. Hanno lasciato spazio alle generazioni della paura, che cambia tutti i parametri e i paradigmi, rendendo effettivamente distante le Italie di Paolo Rossi, quella in cui cresce e quella in cui trionfa al Mondiale. Eppure se oggi fermo per strada un appassionato di calcio con almeno 45 anni, riesce a citare a memoria la Nazionale del 1982, undici su undici, mentre probabilmente pochi, se non nessuno, riuscirebbe ad azzeccare quella dell’Europeo del 2021. Il Mondiale del 1982 è stata la più grande gioia sportiva della nostra storia, per molte ragioni».

Quali?

«È stato un Mondiale vinto battendo l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico, la Polonia di Boniek e la Germania di Rummenigge, tutti i più forti. È stato un Mondiale vinto contro tutto e contro tutti, anche e soprattutto la critica sportiva che aveva massacrato l’Italia e Bearzot, salvo poi dover risalire frettolosamente sul carro. Tutti tranne Tuttosport, questo va detto, perché Pier Cesare Baretti aveva sempre difeso Bearzot e Rossi, e creduto in loro. E poi è stato il Mondiale che coronava le speranze di riscatto nutrite dalle generazioni di cui parlavo prima. È stato il Mondiale perfetto e Paolo Rossi ne è stato il perfetto protagonista».

Ecco, forse i giovani faticheranno a rapportarsi a quell’Italia, ma Paolo Rossi appare come un personaggio senza tempo.

«Aveva un sorriso bellissimo, un sorriso che parlava di inclusione e di sensibilità. Due argomenti molto attuali».

Immagino la difficoltà a trattenere la commozione raccogliendo certe testimonianze. Ma durante le riprese ci sono stati momenti anche di sano divertimento?

«Tornare a Barcellona e a Madrid con Tardelli e Cabrini è stato spassoso. Siamo andati a rivedere gli alberghi e ai loro occhi di oggi tutto sembrava più piccolo. Gli spazi che quaranta anni fa sembravano enormi, si sono rimpiccioliti nella loro percezione. La stanza di Madrid, un bugigattolo senza frigo e senza aria condizionata, se oggi la proponi a un giocatore di Serie B, quello ti mena. C’è stato perfino un cameriere di allora che si è presentato con una foto dell’epoca. La visita negli stadi è stata emozionante e divertente: il Bernabeu è completamente diverso, il Sarria non esiste neanche più, ma tutto quel viaggio è stata una madeleine dolcissima».

E poi nel film c’è un aspetto che spesso si trascura nel raccontare il Pablito Mundial: Rossi non è stato solo il bomber di Spagna 82, ma un giocatore strepitoso per tecnica e intelligenza.

«Ho voluto inserire una rassegna di suoi gol con la maglia della Juventus, del Milan e del Vicenza per testimoniarlo. Calciatore straordinario».

Oggi esiste un Paolo Rossi?

«Qualcuno rivede qualcosa di lui in Raspadori, ma non mi sembra. Io rivedo qualcosa nel sorriso di Dybala, ma la verità è che no, sfortunatamente, adesso non c’è. Perché allora calcio e sogno non era un ossimoro, oggi nella bolla di interessi e cinismo in cui viviamo, non c’è l’habitat per un altro Paolo Rossi. Fare il calciatore è un mestiere, il calcio è un’industria. Scusate, sarà un discorso nostalgico, ma io forse sono rimasto là, nel 1982».

 

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