Ancelotti il normale, scopri i gesti per cui è Speciale

Ha vinto tutto, più di tutti. E ovunque, non solo al Real. Ma la persona colpisce ancora e sempre più del tecnico, pur eccelso. Dal coraggio di cantare una cazone per la gente alla rivelazione di Rudiger: «Quel barbecue a casa mia con la mia famiglia»
Ancelotti il normale, scopri i gesti per cui è Speciale

TORINO - Il 26 maggio del 2007 - tre giorni dopo la vittoria sul Liverpool ad Atene griffata Inzaghi che vendicava la beffa atroce di due anni prima allo stadio Ataturk di Istanbul, quella del 3-0/3-3 e poi rigori ferali - San Siro strapieno di cuori rossoneri festeggiava il Milan campione d’Europa in una notte pirotecnica, molto passionale ma anche molto laccata, come da stile berlusconiano. Fra le varie celebrazioni istituzionali, arrivò un momento assolutamente fuori protocollo, ad altissimo contenuto emozionale. Allorché Carlo Ancelotti, dopo essersi profuso in ringraziamenti d’ordinanza, lasciò che l’anima prevalesse sull’etichetta, oltre che sulla consapevolezza di non essere esattamente un grande cantante, né particolarmente intonato. Se ne fregò: strinse il microfono con vigore, prese fiato e lanciò con voce rotta dalla commozione un coro piuttosto popolare fra i tifosi della Curva. State zitti un attimo per favore” disse rivolto al pubblico. “Vi ho lasciati per ultimi perché con voi voglio fare una cosa particolare, per ringraziarvi dell’affetto, della passione, della forza che ci avete dato. È dalla notte di Manchester (la Champions vinta ai rigori sulla Juventus che lo aveva cacciato, ndr) che tengo nelle orecchie e nel cuore una canzone che ora vorrei cantare insieme a voi. Parto io”. Più o meno così, disse Carletto, prima di lanciarsi in alé Milan, forza lotta vincerai non ti lasceremo mai, trascinando poco alla volta tutto lo stadio.

Normalità straordinaria

Ne scaturì un momento di condivisione bellissimo che colpì, credo, tutti quelli che videro e soprattutto ascoltarono. Me, di sicuro. Tanto che all’indomani, pur non essendo tifoso del Milan né avendo con lui una grande confidenza, mandai ad Ancelotti un messaggio – allora usavano ancora gli SMS – per ringraziarlo di avermi fatto emozionare e commuovere con quel gesto così semplice, così istintivo, così fanciullesco. Così umano, ecco. In un mondo, quello del calcio, che tali connotazioni aveva smarrito già da un pezzo. Lui rimase colpito e riuscì a trovare il tempo, la voglia e la gentilezza di rispondermi – pur essendo io in fondo alla classifica dei suoi riferimenti giornalistici – ringraziandomi a sua volta per avere colto e apprezzato certi suoi tratti caratteriali, sostanzialmente non conoscendolo, nelle pieghe di mille prescindibili resoconti calcistici. Non posso dire che lì sia nato chissà quale rapporto personale, essendo io presto andato a fare e seguire altre cose e lui a fare e vincerne altre. E sto derogando alla mia abitudine, che riprenderò immediatamente dopo questo racconto, di non scrivere mai in prima persona; non tanto perché lo trovi poco elegante ma perché ritengo che ai lettori poco interessino le autoreferenzialità dei giornalisti. In questo caso però l’IO mi serviva per raccontare LUI. Un allenatore che, dopo essere stato fantastico giocatore, ha vinto più e meglio di chiunque altro. Ovunque e in qualunque pretenziosissima piazza, dimostrando di non essere soltanto un tecnico d’élite, ma un formidabile gestore di uomini, campioni e situazioni, oltre che una persona mai fuori dalle righe dell’educazione e del rispetto degli altri, capace di conservare e coltivare una dimensione di “persona normale” – pur nella straordinarietà dei contesti in cui si trova, per merito, a operare. Un episodio tra mille, ma credo significativo, nella sua piccola grandezza.

Campanello e barbecue

Ecco perché non mi sono stupito nel leggere le dichiarazioni di Antonio Rudiger, difensore tedesco originario della Sierra Leone, approdato la scorsa estate al Real Madrid dal Chelsea, dopo aver militato anche in Italia, nella Roma, e aver sfondato in Premier League nelle file del Chelsea. Appartenente al club dei decamilionari (di ingaggio stagionale: ha firmato da svincolato per quattro anni), l’ex centrale dei Blues ha rilasciato un’intervista alla tv tedesca Sport 1 nella quale è stato invitato a raccontare come si fosse inserito, durante questi mesi da neofita merengue, nella squadra più prestigiosa e nella città di Madrid. E lui sì, ha parlato di questo e di quel compagno, dei suoi modelli calcistici e delle sue aspirazioni, ma quando gli è stato chiesto cosa lo avesse più colpito in assoluto, ha risposto così: “Arrivato da poco in Spagna, io e la mia famiglia (ha moglie e due figli, ndr) ci eravamo appena insediati nella nuova casa. Per sentirci subito a nostro agio, ho deciso di mettere su un barbecue e abbiamo cominciato a mangiare. A un certo punto è suonato il campanello. Sono andato alla porta, ho aperto e mi sono ritrovato davanti Carlo Ancelotti. Sono rimasto piuttosto sorpreso, lo ammetto. Comunque l’ho fatto entrare, lui si è accomodato al nostro tavolo e ha pranzato con noi. È rimasto lì da noi un paio d’ore, durante le quali abbiamo parlato un po’ di tutto. Una situazione molto semplice, molto terra-terra. Di famiglia, appunto. Vi dico la verità, non avevo mai vissuto una situazione simile. Nessun coach aveva mai fatto una cosa del genere per me. E dopo averlo conosciuto da poco. Devo dire che, in quanto a capacità di rapportarsi con i giocatori, Ancelotti non è secondo a nessuno. Insomma, ragazzi, Don Carlo: quando io ero ancora un ragazzino lui aveva già cominciato a collezionare trionfi in Champions League. È fantastico poter lavorare con lui nel club più titolato al mondo”. Potevi fermarti a “con lui”, Rudiger. Anzi, a “fantastico”. God save the king, sì. Ma Carletto. Più che altro, ce lo conservi a lungo. L’allenatore, sicuro. Ma soprattutto l’uomo.

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