Il resto sono parole
Questa è la verità, al netto dello splendido Napoli, di una manciata di grandi partite a cui quest’anno abbiamo assistito, di un gruppetto di campioni che va assottigliandosi di stagione in stagione, perché i club devono vendere i gioielli per stare a galla. Il resto sono parole, quelle spese in continuazione, da due decenni, a proposito dell’urgenza di riformare i campionati, di costruire stadi, di rilanciare i settori giovanili, di varare progetti a lunga scadenza e non piani raffazzonati per vincere subito e poi lasciare le macerie. E le società italiane invece di fare sistema si fanno la guerra. Sì, per carità, ci sono eccezioni. Vantiamo ancora eccellenti dirigenti e abbiamo una capacità innata di inventare calcio, ottenendo pure qualche risultato importante, ma è sempre frutto di un progetto individuale o, peggio, di una felice improvvisazione, non si intravede mai nulla di sistemico e programmatico nei nostri successi sul campo. Così le televisioni sono meno propense a rischiare i loro soldi, investendoli più volentieri nella Champions League, il prodotto che funziona meglio di tutti e sta cannibalizzando le leghe nazionali, in nome della difesa del calcio del popolo. Ma questa è un’altra storia. O forse no.