Il caso Acerbi non va archiviato: il razzismo si combatte anche a parole

Il difensore dell'Inter non è un razzista, non etichettiamolo così, sarebbe ingiusto. Però ha detto una cosa razzista: se ne penta e continui a combatterlo, il razzismo, anche a parole

Un giorno non sarà più necessario scrivere un articolo del genere. Fino ad allora bisogna essere ripetitivi fino alla noia, al limite anche rompere le palle con questa storia, ma non mollare mai, nemmeno di un centimetro, perché il traguardo non è poi così vicino anche se molta strada è stata percorsa, ma soprattutto perché nella lotta contro il razzismo non ci si può accontentare, l’unico risultato accettabile è la sparizione di ogni piccola traccia, di ogni parola. Perché le parole sono importanti e non sono solo parole: si parla come si pensa e se si parla male, vuole dire che si pensa male. E «chi dice io non sono razzista, ma... è un razzista ma non lo sa», ha sintetizzato perfettamente Willie Peyote (il pezzo, ha quasi 10 anni, purtroppo resta attuale).

Acerbi e il caso razzismo

Estirpare una parola dal vocabolario non è un esercizio formale, un rito del politicamente corretto, ma significa cancellarla dal modo di pensare comune e insieme a lei il significato e il retaggio culturale che si trascina dietro. Il potere delle parole è immenso, dentro poche sillabe ci sono storie dolorose di discriminazione, si nascondono insormontabili ostacoli a una reale integrazione, si annidano virus intellettuali che infettano i ragionamenti. Insomma, Francesco Acerbi non deve essere criminalizzato, perché c’è sempre una bella differenza fra quello a cui scappa una parola da non pronunciare e chi pratica costantemente il razzismo (e Acerbi non è sicuramente fra questi), ma il caso Acerbi non va neanche archiviato con indulgente superficialità. Senza processi sommari, né gogne mediatiche, la vicenda di domenica sera va cavalcata per ribadire con forza che quella parola non si usa, in nessun modo e in nessuna circostanza e che ripulire il proprio vocabolario significa ripulire dal razzismo il proprio modo di pensare. Senza ipocrisia, senza imbarazzanti distinguo, senza prendersela con la pedanteria di chi non ammette deroghe nel linguaggio pubblico, senza sbuffare: «Così non si può più dire niente». Concetto a presa rapida, bandiera del benaltrismo, rifugio della pigrizia mentale di chi vuole evitare la fatica di mettersi nei panni degli altri o, forse, ne ha molta paura. Acerbi non è un razzista, non etichettiamolo così, sarebbe ingiusto e la lotta la razzismo non ha bisogno di falsi nemici. Acerbi, però, ha detto una cosa razzista, se ne penta e continui a combatterlo, il razzismo, anche a parole.

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