"La Juve a MIlano?" Ecco che cosa ha detto (e che cosa voleva dire) Calvo

Il manager bianconero non ha mai parlato di trasferimento della società a Milano, ma ha sottolineato come "a livello prettamente commerciale, Milano offra opportunità superiori rispetto a Torino". Eppure, e di nuovo, la disinformazione mordi e fuggi del web ha colpito ancora
"La Juve a MIlano?" Ecco che cosa ha detto (e che cosa voleva dire) Calvo© Juventus FC via Getty Images

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Dieci regole per acclarare la veridicità di un'affermazione che, se strumentalizzata o manipolata o mal riportata, scatena gli attacchi degli odiatori seriali. Com'è accaduto a Francesco Calvo, manager di punta della Juve, dov'è ritornato dopo le esperienze vissute al Barcellona e alla Roma. In occasione del Business Forum Torino con le aziende gravitanti nel mondo bianconero, Calvo ha rilasciato una lunga intervista al sito specializzato Calcio e finanza, dicendo molte cose e tutte particolarmente interessanti. Peccato che la disinformazione mordi e fuggi si sia soffermata, stravolgendolo, sul passaggio relativo al lavoro commerciale del team Juve, già "presente stabilmente a Milano, il centro economico italiano". Da qui ad affermare che Calvo sogni il trasferimento della Juve in casa Inter e MIlan ci sono 142,5 km di panzane, equivalenti alla distanza fra la città metropolitana di Torino e la città metropolitana di Milano. Ciò non ha impedito che il manager fosse tempestato di insulti e di polemiche, scatenati da chi o non aveva capito o non aveva letto le sue parole o le aveva riportate malissimo o le ha interpretate in chiave contraria alla gestione post Andrea Agnelli. Così, in ossequio al decalogo del Politecnico di Milano, ecco il testo integrale delle dichiarazioni di Calvo a Luciano Mondellini, direttore di Calcio e finanza. L'intervista è stata pubblicata sabato 23 marzo.

Noi il Manchester United italiano? Magari sono loro la Juventus inglese». Dal cuore dell’Allianz Stadium, la Sala Giovanni e Umberto Agnelli che dà direttamente sulla tribuna d’onore, Francesco Calvo, Managing Director Revenue & Football Development della Juventus, ha parlato in esclusiva a Calcio e Finanza svelando nei dettagli i piani e le strategie del club bianconero. La cornice è infatti quella dello Juventus Business Forum, evento che il 20 marzo ha visto protagoniste nell’impianto torinese oltre 200 tra Partner e titolari di abbonamenti Juventus Premium Club tra il migliaio di aziende legate al club, con oltre 400 i professionisti presenti, e più di mille gli incontri one-to one, in una giornata di confronto e networking tra alcuni dei principali stakeholder bianconeri. A fare gli onori di casa nella mattinata era stato l’amministratore delegato bianconero Maurizio Scanavino, invece Calvo, che occupa una linea dirigenziale sotto quella dello stesso Scanavino, ha inaugurato la sessione pomeridiana con l’intervista a Calcio e Finanza. Una chiacchierata ad ampio spazio nella quale il manager, tornato alla Juventus nel 2022 dopo una prima esperienza conclusasi nel 2015 e dopo incarichi dirigenziali prima al Barcellona e poi alla Roma, ha messo nel mirino tutti gli aspetti più importanti della politica commerciale bianconera. Passando con disinvoltura dal parlare di Intelligenza Artificiale ai temi più prettamente calcistici, oltre ovviamente alle questioni strategiche per il club bianconero, tra le quali la qualificazione al nuovo Mondiale per Club, la ricerca del nuovo sponsor di maglia, nonché il sistema Serie A che limita la crescita e il confronto con le altre leghe europee. Per poi proseguire con la necessità di stabilizzare la Juventus dopo gli ultimi anni difficili, dal post-Covid fino alle vicende giudiziarie che hanno influito poi anche sul campo nella passata stagione.

Dottor Calvo, partendo dal tema più fresco, ovverosia la qualificazione al Mondiale per Club. Che potenziale ha questo nuovo torneo che si giocherà negli Stati Uniti nel 2025? «Per noi è una grandissima opportunità, era estremamente importante qualificarci per il futuro della Juventus non solo per quanto riguarda il tema della sostenibilità economica ma anche per la forza commerciale e l’appeal che il nostro club potrà avere a livello internazionale. Questo detto, c’è un elemento di curiosità per capire come sarà questo Mondiale nella sua prima edizione, con 32 club per un mese negli USA. Infatti non sappiamo bene ancora quale sarà l’impatto del torneo, visto che sarà in un momento della stagione particolare considerando che si giocherà tra metà giugno a metà luglio, sarà molto interessante».

Esiste un vantaggio nel giocare negli Stati Uniti? «Il fatto di essere negli USA è notevolmente interessante, quello nordamericano è un mercato che sta crescendo, anche se non al livello degli altri sport americani tradizionali, visto che comunque il calcio negli USA resta marginale rispetto agli altri sport. Però prima ci sarà il Mondiale per Club nel 2025 e poi la Coppa del Mondo nel 2026, quindi speriamo che anche lì con la crescita della MLS negli ultimi anni e l’arrivo di Messi, il calcio riesca veramente a sfondare».

Negli USA a livello commerciale c’è potenziale abnorme. Da questo punto di vista possono esserci opportunità? «Senza dubbio. Va detto però che quando si va all’estero l’importante è avere la continuità. Noi come calcio non siamo presenti nella quotidianità della vita dei cittadini e delle aziende americane e questo è il fattore che ci penalizza rispetto ai loro sport domestici. Però sicuramente tra il Mondiale per Club, le tournée estive che abbiamo fatto e la Coppa del Mondo il calcio riesca a fare breccia».

A proposito di aspetti commerciali, qual è lo stato dell’arte per quanto riguarda ricerca del nuovo sponsor di maglia per la prossima stagione? «Ci stiamo lavorando. È una sfida importante per noi anche perché era da tanti anni che non andavamo sul mercato per cercare uno sponsor di maglia (dal 2012/13 infatti il brand sulla divisa è sempre stato Jeep, marchio del colosso automobilistico Stellantis il cui primo azionista è Exor, che controlla anche la Juventus, ndr). Inoltre arriviamo da anni complicati per quanto concerne l’immagine del brand Juventus, questo è un dato di fatto. Poi c’è una considerazione più generale: per il prestigio del nostro blasone è difficile trovare il partner adatto ma la grandezza del nostro marchio si definisce anche da quanti no riusciamo a dire visto che non siamo un marchio per tutti. In questo momento è molto difficile dire di no, ma siamo ancora nella fase in cui diciamo tanti no alla ricerca del partner giusto».

L’espansione internazionale resta un elemento fondamentale, come dimostrano anche i numeri del vostro ufficio a Hong Kong. «È un tema sicuramente importante, il calcio è uno sport globale e dobbiamo riuscire a conquistare una audience planetaria. Noi abbiamo un ufficio a Hong Kong con sette persone che però, ahimé è nato nel momento sbagliato, ovverossia nel settembre 2019, data cui sono seguite a stretto giro le proteste per strada a Hong Kong, poi è arrivato il Covid e infine le problematiche legate alla Juventus negli ultimi due anni. Però, commercialmente questa è una spinta importante sui ricavi visto che garantisce circa 7 milioni con una spesa di un milione. Soprattutto in un mondo che difficilmente riusciremmo a raggiungere da Torino».

Quanto incide invece non avere alle spalle la capitale economica del Paese, ovvero Milano? «A livello prettamente commerciale Milano offre opportunità superiori rispetto a Torino. Il nostro team commerciale è stabilmente nel capoluogo lombardo, che alla fine è il centro economico italiano. Parlavo con dei colleghi di Ferrari: Maranello è un paesino nel modenese, visitarlo è un’esperienza incredibile, però anche loro hanno aperto un ufficio a Milano che commercialmente conviene anche solo per comodità. Noi per quanto siamo vicini, scontiamo questo problema. Ogni tanto sogno di essere a Milano come società a livello commerciale (ride, ndr), ma ci sono già due squadre e non ci sarebbe spazio. Detto questo, siamo orgogliosi di poter rappresentare Torino nel mondo, una città a cui siamo storicamente molto legati e che anche i nostri tifosi, italiani e internazionali, considerano casa, una città alla quale Juventus apporta valore in termini di notorietà ed in termini economici, visto l’impatto che ogni partita della Juventus ha sul territorio».

Essere quotati in Borsa è più un vantaggio o uno svantaggio? «Nell’attività commerciale è assolutamente indifferente, le criticità che vedo sono che tutti lavoriamo di più per quelli che sono gli obblighi di Borsa e parlo in generale dell’azienda, questo è un aspetto negativo. Inoltre essere sui listini ci dà degli obblighi di trasparenza nei confronti del mercato per cui io magari faccio fatica a raccogliere informazioni e dati legati ad accordi di altri aziende mentre noi dobbiamo dare visibilità pubblica per qualsiasi accordo di una certa dimensione. Questo non è mai piacevole. Dà l’impressione di essere il Manchester United italiano, inteso come azienda? Magari sono loro che possono essere ritenuti la Juventus inglese, mi piace di più (ride, ndr)».

Parlando dei vantaggi? «Essere quotati in Borsa dall’altro lato dà disciplina lavorativa in tutte le divisioni aziendali e un obbligo di professionalizzazione. Però non so dire se questo sia legato alla borsa oppure, vista la proprietà del club, alla cultura manageriale di Exor (la holding della dinastia Agnelli-Elkann, ndr). La Juventus è stata gestita come una azienda anche prima della quotazione. Insomma credo sia un mix tra le due cose, da un lato gli obblighi ma dall’altro il dna di Juventus e della famiglia che abbiamo alle nostre spalle».

La Juventus è molto amata, ma anche molto odiata. È un problema quando si tratta di attrarre sponsor? «Per quanto il calcio possa essere divisivo, il nome Juventus rappresenta molto più un vantaggio che uno svantaggio. Non vediamo grandi problemi o aziende che hanno paura di legarsi alla Juventus pensando alle conseguenze legate agli altri tifosi. Anzi pensano molto più al nostro enorme numero di tifosi. All’estero non c’è nemmeno l’ipotetico aspetto negativo legato alla rivalità italiana, perché la Juventus ha una storia e anche un presente molto importanti che all’estero ci mette alla pari dei grandi club europei».

Quali sono i canali su cui la Juventus punta per cercare di aumentare i ricavi? «Tutti (ride, ndr). La pressione che mettiamo nell’andare a incrementare i ricavi su qualsiasi business è notevole, anche perché nella strada verso la sostenibilità dobbiamo razionalizzare i costi ma sicuramente dobbiamo anche aumentare i ricavi. Il digitale è la nostra grande sfida, in particolare lo sfruttamento dei contenuti. Noi abbiamo creato una nostra media house, lo Juventus Creator Lab, che lavora 20 ore al giorno sulla creazione di contenuti, ne postiamo circa 1.500 a settimana. È un tema affascinante, stiamo investendo tanto e la sfida è capire come monetizzare. Su questo abbiamo il vantaggio di avere la vicinanza con il gruppo Gedi (media company che come Juventus è controllata da Exor e che con Juventus condivide lo stesso amministratore delegato, Scanavino, ndr). Con loro stiamo lavorando per capire come essere primi ed essere leader».

La Juventus è tra i primi club al mondo su TikTok, social in cui convergono le fasce dei più giovani. È lì che bisogna lavorare? «Sicuramente è un ambito in cui sono opportunità di crescita, nelle piattaforme legate ai giovani siamo il quarto/quinto club di calcio al mondo e siamo il primo brand italiano sul digital in generale e su TikTok, dove siamo tra i primi dieci per quanto riguarda i club di calcio».

A livello digitale il tema immagino sia come monetizzare i contenuti. «Oggi la monetizzazione è quasi pari a zero, ma il primo club che riuscirà ad ottenerla potrà sfruttare un bel vantaggio. È scontato dirlo ma non farlo. Sarà importante ottenere la monetizzazione dei propri contenuti senza alcun intermediario, come invece avviene oggi soprattutto attraverso i broadcaster. Oggi però le televisioni tradizionali faticano, non a caso sono nate piattaforme diverse tipo Dazn. Ma quale ruolo riusciranno ad avere i club in questo sistema è difficile dirlo. Come Lega Serie A ci abbiamo pensato a lungo, la questione era se accettare le offerte da DAZN e Sky o se volere fare qualcosa in proprio e saremmo stati la prima lega al mondo. Fortunatamente siamo rinvenuti prima dell’ultimo chilometro e non ci siamo inventati nulla di nuovo perché non credo fossimo pronti».

Proprio sul tema Lega Serie A. Si percepisce una minore efficienza della lega italiana rispetto ai competitori europei: è vero? «Quello che ci penalizza rispetto ai nostri competitor europei è la struttura che abbiamo alla base, perché la Serie A oggi non è un sistema sviluppato quanto la Premier League inglese e la Liga spagnola. Non ha la stessa diffusione televisiva in tutto il mondo. In particolare oggi si sente molto la differenza tra la Serie A e la Premier League, non con la Liga. Anche perché la Serie A ha un vantaggio di storia e di valore del brand Italia nonché delle squadre di calcio».

Il patron del Milan Gerald “Gerry” Cardinale nella sua intervista a Calcio e Finanza ha spiegato quanto è difficile fare business nel mercato italiano se la Serie A non riesce a sviluppare il proprio potenziale, anche considerando che l’ultima in Premier League incassa il 40% in più della prima in Serie A dai diritti tv. È un tema anche per la Juventus? «È questa la vera sfida e anche il problema che viviamo e vediamo quotidianamente. Abbiamo analizzato i dati degli incassi dei diritti televisivi prima e dopo l’introduzione della Legge Melandri: nel 2009 l’Atletico Madrid incassava 50 milioni mentre la Juventus ne riceveva 110 perché andava a vendere i diritti tv direttamente. Oggi invece l’Atletico Madrid incassa 130 milioni e la Juventus arriva forse a 85. Questo chiaramente è uno svantaggio competitivo notevole che abbiamo rispetto alle tre big spagnole o a tutte le squadre inglesi».

È qualcosa che poi si riflette anche sul calciomercato? «Corretto. Basti pensare che nel 2013 la Juventus vendette Ogbonna al West Ham e molti di noi erano stupiti che il West Ham si potesse permettere di prendere un giocatore che era nazionale italiano ed era alla Juventus. Allora era un segnale di allarme e oggi è la norma. Oggi i nostri giocatori possono andare o alle grandi europee o alle medio-basse inglesi che hanno più risorse di noi. Fa spavento pensare che l’ultima squadra inglese incassi più della prima italiana. Si parla sempre delle prime cinque leghe d’Europa, ma in realtà ce n’è una che è l’Inghilterra, dietro c’è la Spagna e poi ce ne sono tre che sono Italia, Francia e Germania».

Come si può risolvere questo problema di sistema? «È un nodo che ha origine tanti anni fa. Intanto l’Italia il cui Pil non cresce ormai da 20 anni a differenza di altri Paesi europei, poi non abbiamo mai investito negli stadi tranne noi, l’Udinese e l’Atalanta. D’altronde abbiamo visto i problemi che ci sono in qualunque città italiana quando si parla di nuovi stadi. Detto questo, c’è poi un aspetto fondamentale: se il Paese non cresce, se la burocrazia ti ostacola e poi se hai una sistema Serie A che non è ancora al livello della miglior lega europea, diventa molto difficile crescere. È il vero limite che sentiamo oggi, anche se noi facciamo tutto perfetto, e dobbiamo fare tutto perfetto perché non siamo ancora in quella situazione, sappiamo che abbiamo un limite fisiologico di crescita».

Anche perché mettere d’accordo 20 teste in Lega non è mai facile, immagino. E tornando al confronto con le altre leghe, nella Liga, che conosce bene vista l’esperienza al Barcellona, c’è un presidente che ha molto più potere rispetto all’amministratore delegato della Lega Serie A. «Nella Liga il presidente ha tutti i poteri. È una situazione simile a quella che avevamo in Italia negli anni ‘90 e all’inizio duemila, quando la Serie A e la Serie B erano insieme in un’unica lega. In quel contesto il calcio funzionava forse meglio, era un business diverso, più piccolo però si decideva. Detto questo, la Serie A, nonostante a volte siamo molto bravi a mostrare all’esterno la faccia peggiore del calcio italiano, il movimento si sta sviluppando e sta investendo per crescere, però serve del tempo per vedere i risultati».

In particolare in che modo punta a crescere la Lega Serie A? «Negli ultimi 5 anni la Lega ha iniziato un processo di professionalizzazione, creato dipartimenti professionali (competizioni, editoriale, produzione, diritti tv, commerciale e marketing) ed i risultati si stanno iniziando a vedere: ad esempio, i ricavi commerciali sono raddoppiati rispetto al ciclo pre-covid e questa è la testimonianza di un calcio italiano che cresce e di una lega che lavora bene. E anche sportivamente, come vediamo costantemente nelle competizioni europee il cui ranking è il risultato, il calcio italiano funziona bene».

Il calcio è uno dei settori che non sembra decrescere nell’interesse popolare. C’è anche una possibilità di crescere e se sì in particolare in quali ambiti specifici? «Credo che lo sport in generale e il calcio che ne fa parte sia un settore anticiclico, lo ha dimostrato negli ultimi 30/40 anni anzi ha mostrato anche di poter crescere passando dall’essere solo uno sport a diventare un vero e proprio business. Abbiamo visto tanti investitori stranieri arrivare in Europa, soprattutto americani, con l’obiettivo anche di professionalizzare lo sport. La crescita per il futuro è una sfida, è vero che siamo tornati su tutti gli indicatori a livelli pre-Covid anzi in qualche caso anche migliori, ma è difficile capire dove possa crescere ulteriormente il settore».

La spinta dei ricavi da diritti televisivi si è esaurita? «Sicuramente la corsa dei diritti televisivi che ha guidato la crescita del calcio credo sia adesso finita, lo abbiamo visto con tutte le aste dei diritti domestici europei e per cui i diritti tv è difficile cresceranno ancora. Invece sta crescendo molto il settore delle entrate commerciali grazie a sponsorizzazioni in continua crescita sulla spinta dell’ingresso di nuovi player da Paesi extraeuropei quali Asia e Medio Oriente».

Gli stadi sono tornati a riempirsi anche in Italia: può essere un fattore? «Sì, perché c’è una incredibile fame per gli eventi dal vivo, lo vediamo in ogni settore. Era dal 1999 che la Serie A non aveva una media spettatori oltre 30mila a partita, da 25 anni non c’erano così tanti spettatori in Italia. Questo sarà un fattore di crescita negli anni a venire. Un aspetto a cui si possono legare i ricavi da matchday e merchandising, per cui gli indicatori sono tutti positivi. Certamente è necessario che i club, e la Juventus è impegnatissima su questo tema, ascoltino i propri tifosi e siano in grado di renderli partecipi dell’esperienza dal vivo. Poi come detto anche prima ci sarà lo sfruttamento del mondo digitale legato allo sport, su cui nessuno è ancora riuscito a fare la differenza e avere una strada verso la monetizzazione».

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