«Scrivi sempre quello che vedi. Poi valuta tu se scrivere sempre quello che senti». Lo intesi come un doppio consiglio con duplice riferimento: al sentire con le orecchie, nel senso di ascoltare, e al sentire con il cuore, quello che a volte deve lasciare spazio al cervello. Mi perdonerà, il signor Pizzul, il gigante Bruno e buono, se attacco questo articolo con quello che sente il cuore e se utilizzo, una tantum, un vissuto personale: non è per gratificare me, all’epoca pischello giornalistino in soggezione che gli si rivolse dandogli del lei, ma per far capire com’era lui, al di là delle cose che tutti sappiamo e tutti ricorderemo.
"Tutto molto bello", un marchio di fabbrica
Tipo che era una persona perbene, e non certo perché troppi siano soliti dirlo dei morti, ma perché era la prima sensazione che avevi quando lo incontravi; anzi, appena lo sentivi. Quando parlava in tv, con quel vocione caldo e gentile, nasale e pastoso (cit.) e raccontava il gioco del pallone in un modo che nessuno è più riuscito a fare né più riuscirà. Senza enfasi, eppure con trasporto. Senza orpelli, fossero lessicali o nozionistici, eppure prodigo di dettagli e osservazioni che arricchivano il piatto. Anche quand’era un piatto povero. «Francamente, non è una bella partita». Quante volte glielo abbiamo sentito dire in telecronaca e quanto ci manca quella schiettezza cronistica, oggi che - per ragioni di marketing, sponsor, audience, autopomozione - si spacciano come match del secolo incontri inguardabili, e si grida al miracolo se qualcuno fa un dribbling o mette in mezzo un cross come Dio comanda. Lui, che a calcio aveva giocato da arcigno centromediano arrivando perfino a marcare Sivori e di calcio ne capiva, dopo qualche giocata tecnicamente apprezzabile al massimo s’allargava a esclamare: «Tutto molto bello». Un marchio di fabbrica.