Grazie Pizzul, cantore di un’altra Italia: con te era tutto molto bello  

Il fumo e Bearzot, l’amico Vicini, le carte. «Oggi troppe parole in tv. Inutili»

«Scrivi sempre quello che vedi. Poi valuta tu se scrivere sempre quello che senti». Lo intesi come un doppio consiglio con duplice riferimento: al sentire con le orecchie, nel senso di ascoltare, e al sentire con il cuore, quello che a volte deve lasciare spazio al cervello. Mi perdonerà, il signor Pizzul, il gigante Bruno e buono, se attacco questo articolo con quello che sente il cuore e se utilizzo, una tantum, un vissuto personale: non è per gratificare me, all’epoca pischello giornalistino in soggezione che gli si rivolse dandogli del lei, ma per far capire com’era lui, al di là delle cose che tutti sappiamo e tutti ricorderemo.

"Tutto molto bello", un marchio di fabbrica

Tipo che era una persona perbene, e non certo perché troppi siano soliti dirlo dei morti, ma perché era la prima sensazione che avevi quando lo incontravi; anzi, appena lo sentivi. Quando parlava in tv, con quel vocione caldo e gentile, nasale e pastoso (cit.) e raccontava il gioco del pallone in un modo che nessuno è più riuscito a fare né più riuscirà. Senza enfasi, eppure con trasporto. Senza orpelli, fossero lessicali o nozionistici, eppure prodigo di dettagli e osservazioni che arricchivano il piatto. Anche quand’era un piatto povero. «Francamente, non è una bella partita». Quante volte glielo abbiamo sentito dire in telecronaca e quanto ci manca quella schiettezza cronistica, oggi che - per ragioni di marketing, sponsor, audience, autopomozione - si spacciano come match del secolo incontri inguardabili, e si grida al miracolo se qualcuno fa un dribbling o mette in mezzo un cross come Dio comanda. Lui, che a calcio aveva giocato da arcigno centromediano arrivando perfino a marcare Sivori e di calcio ne capiva, dopo qualche giocata tecnicamente apprezzabile al massimo s’allargava a esclamare: «Tutto molto bello». Un marchio di fabbrica.

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Da Italia '90 a Usa '94

Come prima di lui i maestri Carosio e Martellini, era la voce della Nazionale, l’unica squadra per la quale si concedesse un po’ di esplicito ancorché composto tifo. Non l’ha mai potuta raccontare in un trionfo mondiale o europeo. «Ma mi sono rifatto con i successi delle nostre squadre di club nelle coppe». La beffa ai rigori, dopo Schillaci e le notti magiche, gli pesò più nella semifinale di Italia 90 («Sono immagini che non avremmo mai voluto commentare», il suo sconforto dopo l’errore dal dischetto di Serena con l’Argentina) che nella finale di Usa ‘94. «Ecco Roberto... Alto, il campionato del mondo è finito, lo vince il Brasile». Quel Baggio che ripetè otto volte dopo una rete fantasmagorica alla Cecoslovacchia senza che nessuno lo trovasse ridondante, superfluo, stucchevole: la semplicità al potere. Ogni tanto gli scappava un «ahi», un «mannaggia». Fa ancora piangere, di commozione e tenerezza, la sua esultanza liberatoria per il gol ancora di Baggio alla Nigeria, in quei mondiali fin lì penosi per noi, all’apice di una telecronaca sconfortata e di anomala severità per l’ennesima brutta prestazione degli azzurri: era arrabbiato e deluso perché pensava agli italiani d’America che già si erano dovuti sorbire lo sbeffeggio di irlandesi e messicani, gli altri emigrati/immigrati di una guerra tra poveri, contro cui avevamo fatto pietà cavandocela per il rotto della cuffia.

Il Grande Torino e la tragedia dell'Heysel

In realtà - grazie al Grande Torino - era pure del Toro: dentro, però. Fuori non lo lasciava mai trasparire, anche se i granata attempati mai dimenticheranno la sua malcelata sofferenza mentre in cabina, con Aldo Agroppi, trentatré anni fa aspettava sospirando che l’arbitro sancisse «con il triplice fischio» la vittoria sul Real Madrid che portò alla maledetta finale di Amsterdam, quella dei tre pali contro l’Ajax. Era bravissimo a duettare con le prime “spalle”, da Bulgarelli di cui amava la raffinata competenza a Pecci di cui si godeva l’ironia. Ma le telecronache a più voci come sono diventate adesso non gli sconfinferavano tanto: «Troppe parole, spesso le stesse o inutili. A volte hai la sensazione che sia la televisione a raccontare se stessa più della partita», disse a Giorgio Terruzzi in una delle interviste pizzuliane più brillanti e oggi saccheggiate. Dove rievocava anche il ritardo di un quarto d’ora alla prima partita cui lo inviò la Rai, perché lo invitò a pranzo Beppe Viola. Era un Bologna-Juve di Coppa Italia sul neutro di Como. «Meno male che la trasmettevano in registrata, così al rientro negli studi milanesi di corso Sempione riuscii a riempire quel buco». Mai come nella terrificante notte dell’Heysel si confermò fuoriclasse di misura, autocontrollo e rigore giornalistico, riuscendo a dare in diretta le scarne, indicibili notizie che raccoglieva («chiedo scusa a tutti per la frammentarietà di queste informazioni»), esprimendo il suo sconcerto per la disputa del surreale incontro col Liverpool, mentre l’Italia intera tremava e piangeva davanti agli schermi. Il singulto che gli si strozzò in gola prima di comunicare il numero dei morti. La sofferenza nel rifiutare il microfono a dei ragazzi che volevano far sapere a casa che erano vivi, «per non gettare nell’angoscia migliaia di altri italiani» che avevano i loro cari a Bruxelles. Poi si parlarono, loro capirono, rimasero in affettuoso contatto.

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La passione per la briscola

Di Bearzot fu amico, anche se non in confidenza come con Vicini. Eppure, per via del comune essere e sentire e vivere furlàn, e delle molte fumate assieme, molti pensavano che il Vecio gli rivelasse chissà quai segreti e retroscena. A Milano cenava con i sodali Trap e Radice. Con i giocatori era abituato a parlare con più reciproco rispetto che confidenza. «Troppi filtri, adesso; rapporti personali quasi inesistenti, scarsa capacità di accettare l’altro». Catalogava giocatori e squadre in base al gioco di carte preferito: «I milanisti erano da tressette, anche se Rocco ti obbligava alla variante del ciapanò. Gli juventini professionisti dello scopone scientifico. Con gli interisti, scopa d’assi». Al paese suo, prediligeva la briscola. «Perché vale tutto e si litiga di meno». Da pensionato, gli ventilarono una partecipazione all’Isola dei Famosi. «No, grazie, per carità: sono di Cormons, io». È stato un personaggio da cinema, recitando perfino con Buzzanca e Villaggio, rendendosi disponibile per qualche cameo qua e là, anche se la sua era tutto il contrario di una vita da film. Non prese mai la patente: girava in bici. Una volta il portiere della Rai gli disse di lasciarla in strada, «perché se la porta dentro gliela rubano».

Grazie Bruno

Alle sei e mezza sul secondo canale andava in onda Sport Sera e il suo faccione, il suo vocione ti portavano con «i riflessi filmati» nel mondo delle notizie e dei sogni. E la sua competenza andava ben oltre il calcio: ne sapeva di ciclismo e di boxe, di tennis e di ippica, di vela e di canottaggio. Ma per il pallone vibrava: e lo percepivi subito. «Gentili signore e signori all’ascolto, buonasera. Partiti! Batti e ribatti. Grappolo di uomini. Ha il problema di girarsi. Sventola di prima intenzione. Ultimi attimi palpitanti. Eeeeeeeeee... Ed è gol! Un bellissimo gol». Creatività, passione, ma pochi svolazzi e zero pippe. Colto e forbito, però semplice e diretto. Due Baggio in campo? Li chiamava per nome: da Roberto a Dino, da Dino a Roberto. Byron Moreno ci caccia dalla Corea con fischi scandalosi. E lui: «Francamente, non mi pare ci sia stato un arbitraggio all’altezza della situazione». Quando si dice eufemismo. E buona educazione. E senso della misura. «Non mi sono mai preso sul serio: di questo mi compiaccio». Dio ti benedica, gigante Bruno e buono. Oggi è tutto molto triste, ma pensando a te è anche e sempre molto bello.  

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«Scrivi sempre quello che vedi. Poi valuta tu se scrivere sempre quello che senti». Lo intesi come un doppio consiglio con duplice riferimento: al sentire con le orecchie, nel senso di ascoltare, e al sentire con il cuore, quello che a volte deve lasciare spazio al cervello. Mi perdonerà, il signor Pizzul, il gigante Bruno e buono, se attacco questo articolo con quello che sente il cuore e se utilizzo, una tantum, un vissuto personale: non è per gratificare me, all’epoca pischello giornalistino in soggezione che gli si rivolse dandogli del lei, ma per far capire com’era lui, al di là delle cose che tutti sappiamo e tutti ricorderemo.

"Tutto molto bello", un marchio di fabbrica

Tipo che era una persona perbene, e non certo perché troppi siano soliti dirlo dei morti, ma perché era la prima sensazione che avevi quando lo incontravi; anzi, appena lo sentivi. Quando parlava in tv, con quel vocione caldo e gentile, nasale e pastoso (cit.) e raccontava il gioco del pallone in un modo che nessuno è più riuscito a fare né più riuscirà. Senza enfasi, eppure con trasporto. Senza orpelli, fossero lessicali o nozionistici, eppure prodigo di dettagli e osservazioni che arricchivano il piatto. Anche quand’era un piatto povero. «Francamente, non è una bella partita». Quante volte glielo abbiamo sentito dire in telecronaca e quanto ci manca quella schiettezza cronistica, oggi che - per ragioni di marketing, sponsor, audience, autopomozione - si spacciano come match del secolo incontri inguardabili, e si grida al miracolo se qualcuno fa un dribbling o mette in mezzo un cross come Dio comanda. Lui, che a calcio aveva giocato da arcigno centromediano arrivando perfino a marcare Sivori e di calcio ne capiva, dopo qualche giocata tecnicamente apprezzabile al massimo s’allargava a esclamare: «Tutto molto bello». Un marchio di fabbrica.

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