
Sul ventre di Diego mostrato, in una foto che sta facendo il giro del mondo, dal pubblico ministero Pablo Ferrari nella prima udienza sulla morte di Maradona (avvenuta il 25 novembre 2020, a 60 anni ancora non compiuti, in una villa alla periferia nord di Buenos Aires), sette imputati per omicidio doloso, si sta consumando l’ultimo atto di una tragedia omerica, dove l’eroe epico, venerato, accolto per anni e anni da peana e delirio, diventato D10S nel suo ultimo, dolente atto, si scopre nella sua fragilità umana, in quel corpo che si è consumato senza nessuna pietà, senza nessuna consolazione, senza nessuna carezza. Una pancia gonfia, trascurata, proprio lì, in quel luogo senza umanità, senza lume di misericordia e di speranza, dove invece avrebbe dovuto, quell’eroe dei due popoli, napoletano e argentino, trovare salvezza dai suoi incubi e dal suoi fantasmi. Ma quell’immagine straziante, la sua ultima, non cancellerà mai quelle, a milioni e milioni, sparse per il mondo, del campione felice: negli album di famiglia, perché era diventato per molti uno di casa, nei murales, nelle foto sorridenti dopo un gol, uno scudetto, con la Coppa del Mundial messicano alzato al cielo di ogni utopia realizzata, tra mille tifosi adoranti, in quel rosario di «eccomi, sono qui con Diego» a inondare i social. Perché Dieguito era stato di tutti, di troppi: fino all’amore disperato, all’ossessione assurda, come l’amico sempre desiderato, il fratello ritrovato, un compagno a cui confidare, nei giorni di malinconia, le proprie speranze, i proprio sogni, le proprie fragilità.
Giustizia per Diego
Quel ventre non ci fa orrore: perché offende chi lo ha ridotto in quelle condizioni (e sapremo chi, come e perché), a quel passo d’addio straziante, ma non noi che lo abbiamo conosciuto, rispettato, narrato, tra folgorazioni salgariane e universi paralleli e labirinti alla Borges. Quel ventre ci commuove, come quello di un santo laico costretto al martirio, quel ventre siamo noi allo specchio: con le nostre ombre, il nostro inconsapevole tramonto, quel fidarci sempre e comunque, per un anelito di carità, per retaggi ancestrali di bontà. Perché Maradona, nella sua vita e nella sua carriera, è stato paladino dei giusti e degli sbagliati, degli ultimi e degli emarginati, degli ingenui e dei furbi: ha lottato per rendere il calcio non schiavo del denaro e degli ingordi, ora una moltitudine di suoi colleghi giocatori a dire: aveva ragione lui, noi eravamo troppo occupati o troppo distratti. Ora Diego avrà, almeno ce lo auguriamo, giustizia, anche se il processo si annuncia lungo, come un romanzo d’appendice con troppi personaggi senza anima e un collettivo rimpianto a prendere in una morsa la gola e il cuore per tutte le cose che potevano essere e non sono state. Ma, per sempre, resterà il sorriso, quel suo sorriso a girasole, che gli fece dire, in quel luglio del 1984, con una città impazzita di luce e bellezza: «Per superare la nostalgia di Buenos Aires mi basterà aprire la finestra e guardare il mare di Napoli» . Maradona per sempre vivrà nell’incantesimo del prato verde, nelle sue prodezze senza tempo e senza età, nell’allegria che ha saputo donare. La cronaca è miseria, la sua storia è nobiltà. D10S è la favola che ancora raccontiamo al focolare della nostra nostalgia, che non avrà mai fine. Perché abbiamo toccato con mano la Meraviglia e l’Impossibile.