© EPAVai in Champions e incassi un sacco di soldi che, quindi, puoi investire per rinforzarti, così hai più possibilità di riqualificarti in Champions rispetto a chi non ci è andato, quindi incassi di nuovo, ti rinforzi ancora di più e via così, allargando un solco che diventa voragine che inghiotte i sogni di chi, i soldi della Champions, non li vede mai o, al massimo, una volta ogni tanto. I numeri non mentono mai e i numeri dicono che: 1. La Champions è ormai un affare riservato alle squadre delle cinque leghe più ricche d’Europa (Inghilterra, Spagna, Italia, Germania e Francia). Chiamatela Cinque Nazioni del calcio, perché negli ultimi 30 anni solo una volta ha vinto una squadra di un altro campionato (il Porto di Mourinho nel 2004), nei precedenti 30 era, invece, accaduto 10 volte. Nell’ultimo quinquennio, ai quarti di finale sono arrivate solo squadre delle cinque leghe più ricche con due sole eccezioni (Benfica e Porto). 2. All’interno dei cinque campionati si è formata un’élite ulteriormente ristretta di 4/5 club che si qualificano regolarmente e, quindi, monopolizzano i soldi del torno più ricco del mondo. Nell’ultimo quinquennio, in Italia, il 90% del denaro Uefa è finito nelle casse di cinque club (Inter, Juve, Milan, Atalanta e Napoli). In Spagna sono in quattro a dividersi l’85% del bottino, lasciando le briciole agli altri. Esiste, quindi, un gruppo di venti, massimo venticinque società che rastrella il montepremi: sono quelle che possono sognare, alle altre è vietato, perché i miracoli ci sono, ma arrivano giusto ai quarti di finale, dopo è solo un gioco per ricchissimi o ricchi che azzeccano la stagione.
La Champions che divide
La Champions per tutti? Bellissime parole, i numeri però dicono altro: la Champions è un torneo a cui potenzialmente possono partecipare tutti i club europei, ma che è riservato a un quarto dei club delle cinque leghe e un decimo dei club europei. Gli altri guardano e impoveriscono. Sempre di più, perché il nuovo FairPlay finanziario fissa le spese sportive (acquisti e ingaggi) al 70% dei ricavi. Sembra una cosa logica per cementare un concetto di sostenibilità, ma guardatelo dall’altra parte e scoprirete che fissa anche le attuali gerarchie. Se il Real fattura un miliardo, potrà spendere in giocatori 700 milioni. Come fa, un club che fattura 300 milioni (quindi un club importante), a competere sul mercato, potendo investirne 210? Chi prenderà i giocatori più forti secondo voi? Chi, quindi, avrà più possibilità di qualificarsi in Champions e mantenere quel livello di fatturato e chi, invece, non avrà modo di aumentare i ricavi e, quindi, la competitività? Tutto questo si riflette sui campionati nazionali che vedono la nascita di due tipi di club: quei 4/5 che fanno la Champions tutti gli anni che diventano sempre più ricchi degli altri 15/16 che non la fanno. Un’altra spaccatura che risucchia i sogni di uno scudetto al di fuori di quella ristretta cerchia. Si dirà: basterebbe distribuire in modo più equo i diritti tv nazionali. Ma, anche se fosse così (e non tutti sono d’accordo), sta sorgendo un problema non indifferente: tranne la Premier League, i diritti nazionali stanno perdendo progressivamente il loro valore e la torta da dividersi è sempre più piccola. E sapete perché? Perché i soldi spesi dai broadcaster, cioè dalle tv, sono limitati e la Champions, sempre più attraente e con sempre più partite, se ne mangia sempre di più. E una nuova competizione come il Mondiale per club certo non migliora la situazione. Quando l’Uefa bacchetta la Lega Serie A che cerca di racimolare qualche milione di euro in Australia, dimentica che attraverso la Champions ne risucchia molti di più. L’operazione Milan-Como è, forse, discutibile, ma l’impoverimento dei campionati nazionali è indiscutibile.
Lo specchio della società
Non è possibile stabilire oggettivamente se tutto questo è giusto o sbagliato, se è una deriva che toglie poesia o una naturale evoluzione globale del calcio, avvenuta già in altri sport. Ognuno ha la sua opinione e, guardando l’audience della Champions e quella della Serie A, viene da pensare che molti propendano per la seconda ipotesi. Ma il nocciolo della questione, ora, è non far finta di niente e pensare di vivere una favola di meritocrazia e democrazia. No, il calcio è ancora una volta lo specchio della vita e dei suoi tempi: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri.
