Scirea era uno che diceva: «Io so che tanti problemi non ci toccano perché guadagniamo bene. Siamo dei privilegiati. Ma so anche di essere sempre stato lo Scirea di oggi, oggi che sono titolare della Juve e della Nazionale. Non vado in giro a testa alta perché sono... Scirea. Il mio scopo è anche di rispettare e amare chi mi ha dato tutto questo, i tifosi per primi». Perché parlava pochissimo, ma non lo faceva mai inutilmente. Parlava sufficientemente poco da essere il migliore amico di Dino Zoff, con cui condivideva la camera dei ritiri che Marco Tardelli chiamava «la Svizzera», per la pace che vi regnava sempre. Si sono ritirati lì, nella “Svizzera”, la notte in cui sono diventati campioni del mondo. Avevano alzato nel cielo di Madrid la Coppa del Mondo e tre ore dopo - il resto della squadra in discoteca - loro due erano da soli, nella loro stanza, ovviamente in silenzio, con un bicchiere di vino e una sigaretta a testa. «Per assaporare meglio quello che avevamo fatto».
La dignità di Scirea
Scirea ero uno che diceva: «Ero ragazzino, dalle due alle otto stavo all’oratorio, oppure sui prati, facendo le porte con i libri, sempre a giocare. Che belle sudate, che giorni bellissimi. Sono bellissimi anche questi, nei quali gioco con la Juventus e la Nazionale, ma facevo di quei gol sui prati». Perché non si era mai dimenticato da dove veniva, Gaetano Scirea da Cernusco sul Naviglio, figlio di Stefano e Giuditta, operai alla Pirelli, dotati di quella dignità composta di chi mantiene la famiglia con la sua fatica, trasmettendo i valori senza troppi discorsi, ma con una sorta di osmosi morale. Quei valori che hanno accompagnato Gaetano per tutta la sua vita in campo e fuori, sollevandolo dalla mediocrità e facendone brillare ancora di più il talento. Quella che molti scambiavano per timidezza era in realtà sobrietà, senso della misura e consapevolezza delle circostanze.