Pagina 2 | A tutto Messi: la gioia, la paura, il futuro

TORINO - Un Lionel Messi inedito: campione del mondo e capitano, seduto a capotavola nella sua casa parigina. Un sorriso, che non tramonta. Mai. Un’intervista eslusiva da brividi, quella rilasciata poche ore fa a Olé, da godere dalla prima all’ultima parola.

Emozione enorme

«Non so spiegare a parole quello che ho provato quando ho baciato la Coppa del mondo. È stata un’emozione enorme: avevo sognato e desiderato quel momento un sacco di volte, dopo tanti anni in Nazionale, dopo esserci andato vicino nel 2014 in Brasile quando l’avevo vista passare vicino a me senza poterla toccare, coccolare. Questo trionfo è figlio di tanti sacrifici, tante sconfitte, tanti momenti difficili che ho dovuto affrontare». Parla e intanto guarda su un tablet il rigore decisivo di Montiel contro la Francia. Guarda come, dopo il gol del trionfo, cade in ginocchio. Guarda e sospira: «Ad oggi è un momento molto emozionante, rivivo quegli attimi con più calma e ancora adesso mi viene la pelle d’oca. Vedo molti video sui social network e mi vengono i brividi a vedere come sia stato vissuto il rigore del Cachete in vari posti del mondo. Moltissimi hanno sostenuto che io, al momento del rigoe decisivo, stessi parlando con Diego Maradona o con mia nonna. Semplicemente, ho pregato Dio, come sempre, e ho chiesto a Montiel di chiuderla lì. Ho sussurrato: “Per favore, mettilo dentro Cachete, chiudi questo match».

De Paul, pezzo di fotografo!

«La foto di me nel letto con la Coppa? Siamo arrivati ??all’alba, abbiamo dormito pochissimo. Erano le 6 del mattino e avevo già acceso la tv: la mia stanza nel Predio di Ezeiza si affaccia su quella di De Paul e Otamendi. Attraverso la parete si sente tutto: quando ti alzi, quando vai in bagno, quando accendi la tele. Non so perché quella notte la Coppa fosse finita a letto con me, fattosta che Rodri entra nella mia stanza mi vede e mi dice: «Vieni qui che ti faccio una foto». E’ un bravo fotografo, De Paul. E’ abituato alla foto... E’ una persona molto importante per il gruppo, calcisticamente e umanamente. Rende i momenti difficili un po’ più rilassati ed è un bene che queste cose accadano. Ma non sempre è così, pure lui ha i suoi momenti no, anche se la gente lo vede sempre cazzeggiare e ridere. Ma quando c’è da lavorare è una macchina: è il primo a dare il massimo, a volere di più da se stesso e dai compagni».

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Musica maestri

«La colonna sonora del trionfo Mundial? Intanto “Vayas donde vayas”, ma non solo. Dalla Copa América 2021 abbiamo una playlist che ascoltiamo e ci fa sentire bene. Sono momenti speciali per noi e “Vayas donde vayas” ci ha accompagnato in Copa América, nella Finalissima di Wembley contro l’Italia e in questo Mondiale. La ascoltavamo ovunque: in ritiro, in spogliatoio, poco prima di scendere in campo. In pullman avevamo sempre tre o quattro canzoni pronte, che cantavamo tutti, a squarciagola. “Muchachos” è una di quelle. Mi fa sorridere che la gente, in giro per il mondo, abbia iniziato a festeggiare compleanni, lauree, anniversari di matrimonio proprio come io ho festeggiato in Qatar la Coppa del mondo. Penso che le emozioni che abbiamo regalato tra novembre e dicembre abbiano contribuito a migliorare la vita delle persone. Non parlo solo del trionfo finale, ma di ogni vittoria, di ogni passo a cui ne seguiva un altro. Dopo  ogni partita la gente usciva  in strada per divertirsi e festeggiare. Diventare campioni del mondo è stato un momento molto speciale per gli argentini: l’avete cpito anche dai festeggiamenti, no? Diverse generazioni, adulti, bambini, neonati, c’era di tutto. E vedere le facce, comprendere le loro emozioni è stato qualcosa di incredibile. Ecco perché nei compeanni, nelle lauree, negli anniversari di matrimonio, nei trionfi delle squadre argentine come ad esempio il Racing Club di Pillud in Supercoppa si festeggia “come Messi in Qatar”. Ovviamente, tutto questo mi sembra spettacolare. Come è nato, come m’è venuto quel passettino mezzo accovacciato con tutti i compagni che mi aspettano? Non lo so, è venuto spontaneo dopo il trionfo del Maracanã in Copa América contro il Brasile: volevo qualcosa di diverso dal solito. Ho visto che i ragazzi mi stavano aspettando con la Coppa e ho improvvisato. M’è piaciuto, ci è piaciuto e lo abbiamo ripetuto nella Finalissima di Londra. Ovviamente Doha, il Qatar e il Mondiale non potevano essere da meno... Se ho avuto paura di non farcela? Sì, ovviamente sì, anche se eravamo sicuri di quello che valeva il gruppo e di quello che avremmo potuto fare anche dopo la sconfitta con l’Arabia Saudita. Ovviamente avevamo tutti un gran cagazo, una paura fottuta: dopo il ko al debutto se non vincevi la seconda con il Messico iniziavi già a dipendere dagli altri. Lì si è dimostrata la forza del gruppo. Nell’intervallo della sfida contro la Tricolor ricordo di aver parlato ai miei compagni e di aver detto loro che sapevo che la situazione in cui ci trovavamo era difficile, ma ne saremmo usciti. Dissi loro di dimenticare la musica che stavamo suonando fino a quel momento e di tornare a suonare come facevamo sempre. Venivamo da 35 partite senza perdere e sapevamo che se avessimo fatto le cose come stavamo facendo saremmo stati superiori al Messico, eravamo certi che se avessimo giocato con tranquillità e pazienza avremmo vinto. La finale contro la Francia? Abbiamo giocato una partita divina, fantastica. Non è la prima volta che lo facciamo, ma trattandosi di una finale di Coppa del Mondo e contro la Francia, è molto più importante. Ma non è qualcosa che ci sorprende perché sapevamo di esserne capaci. La parata del Dibu Martínez? È stato tutto così veloce che in quel momento non l’ho vissuta nel modo giusto, dandole l’effettivo valore: capitemi, siamo ripartiti immediatamente in contropiede e l’azione si è conclusa con un colpo di testa di Lautaro sul fondo. Ho capito, e sofferto, di più dopo aver rivisto la parata in tv e sui social».

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Quattro anni sono un sacco di tempo

«Il Mondiale 2026? Non lo so, ho sempre detto che, a causa della mia età, mi sembra molto difficile arrivarci. Amo giocare a calcio, amo quello che faccio e finché sto bene e mi sento in forma e continuo a divertirmi, lo farò. Ma il prossimo Mondiale sembra lontanissimo, credetemi. Della finale in Qatar ho tenuto tutto: le scarpe, le magliette, il mantello regalatomi per la premiazione. È tutto lì, nel mio museo: a marzo porterò tutto a Barcellona, ??dove ho le mie cose e i miei ricordi. L’esultanza alla Topo Gigio sotto gli occhi di Van Gaal? Avevo letto cosa aveva detto Van Gaal prima della partita. E la verità è che mi ha dato fastidio, mi ha dato fastidio perché non ho mai mancato di rispetto a nessuno, né allenatori né giocatori. Non parlo mai di nessuno, tanto meno prima di una partita. Mi aveva infastidito perché avevo parlato del ct dell’Olanda con grande rispetto. Non mi è piaciuto il suo atteggiamento e l’ho espresso con l’esultanza di Topo Gigio. Riguardo al “anda pa allà” è usato da tutti, ormai, persino da Nole Djokovic. Lo usano i miei bimbi quando discutono tra loro. Ma ho subito spiegato che era un’espressione detta a caldo, figlia di rabbia e adrenalina e oggi neanche a me piaceva vedermi così. È stata una reazione sconsiderata e naturale. Ovviamente spero che il nostro ct rinnovi presto il suo contratto. Spero che Scaloni continui a essere il nostro tecnico perché penso che al di là di tutto quello che ha fatto vedere, sia una persona molto importante per la Nazionale e per tutto questo gruppo che è cresciuto con lui. Oltre al fatto che hanno vinto la Copa América, la Finalissima e la Coppa del Mondo, sa come trattare un gruppo giovane: non dover cambiare sarebbe spettacolare. Sì, ho parlato della finale con Mbappé e pure dei festeggiamenti, di come la gente in Argentina avesse vissuto il tronfo. Niente più di questo. No, non è difficile parlare, da vincitore, con un tuo compagno di club che la finale del Mundial l’ha persa. La verità è che con Kylian non ci sono problemi, anzi».

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Musica maestri

«La colonna sonora del trionfo Mundial? Intanto “Vayas donde vayas”, ma non solo. Dalla Copa América 2021 abbiamo una playlist che ascoltiamo e ci fa sentire bene. Sono momenti speciali per noi e “Vayas donde vayas” ci ha accompagnato in Copa América, nella Finalissima di Wembley contro l’Italia e in questo Mondiale. La ascoltavamo ovunque: in ritiro, in spogliatoio, poco prima di scendere in campo. In pullman avevamo sempre tre o quattro canzoni pronte, che cantavamo tutti, a squarciagola. “Muchachos” è una di quelle. Mi fa sorridere che la gente, in giro per il mondo, abbia iniziato a festeggiare compleanni, lauree, anniversari di matrimonio proprio come io ho festeggiato in Qatar la Coppa del mondo. Penso che le emozioni che abbiamo regalato tra novembre e dicembre abbiano contribuito a migliorare la vita delle persone. Non parlo solo del trionfo finale, ma di ogni vittoria, di ogni passo a cui ne seguiva un altro. Dopo  ogni partita la gente usciva  in strada per divertirsi e festeggiare. Diventare campioni del mondo è stato un momento molto speciale per gli argentini: l’avete cpito anche dai festeggiamenti, no? Diverse generazioni, adulti, bambini, neonati, c’era di tutto. E vedere le facce, comprendere le loro emozioni è stato qualcosa di incredibile. Ecco perché nei compeanni, nelle lauree, negli anniversari di matrimonio, nei trionfi delle squadre argentine come ad esempio il Racing Club di Pillud in Supercoppa si festeggia “come Messi in Qatar”. Ovviamente, tutto questo mi sembra spettacolare. Come è nato, come m’è venuto quel passettino mezzo accovacciato con tutti i compagni che mi aspettano? Non lo so, è venuto spontaneo dopo il trionfo del Maracanã in Copa América contro il Brasile: volevo qualcosa di diverso dal solito. Ho visto che i ragazzi mi stavano aspettando con la Coppa e ho improvvisato. M’è piaciuto, ci è piaciuto e lo abbiamo ripetuto nella Finalissima di Londra. Ovviamente Doha, il Qatar e il Mondiale non potevano essere da meno... Se ho avuto paura di non farcela? Sì, ovviamente sì, anche se eravamo sicuri di quello che valeva il gruppo e di quello che avremmo potuto fare anche dopo la sconfitta con l’Arabia Saudita. Ovviamente avevamo tutti un gran cagazo, una paura fottuta: dopo il ko al debutto se non vincevi la seconda con il Messico iniziavi già a dipendere dagli altri. Lì si è dimostrata la forza del gruppo. Nell’intervallo della sfida contro la Tricolor ricordo di aver parlato ai miei compagni e di aver detto loro che sapevo che la situazione in cui ci trovavamo era difficile, ma ne saremmo usciti. Dissi loro di dimenticare la musica che stavamo suonando fino a quel momento e di tornare a suonare come facevamo sempre. Venivamo da 35 partite senza perdere e sapevamo che se avessimo fatto le cose come stavamo facendo saremmo stati superiori al Messico, eravamo certi che se avessimo giocato con tranquillità e pazienza avremmo vinto. La finale contro la Francia? Abbiamo giocato una partita divina, fantastica. Non è la prima volta che lo facciamo, ma trattandosi di una finale di Coppa del Mondo e contro la Francia, è molto più importante. Ma non è qualcosa che ci sorprende perché sapevamo di esserne capaci. La parata del Dibu Martínez? È stato tutto così veloce che in quel momento non l’ho vissuta nel modo giusto, dandole l’effettivo valore: capitemi, siamo ripartiti immediatamente in contropiede e l’azione si è conclusa con un colpo di testa di Lautaro sul fondo. Ho capito, e sofferto, di più dopo aver rivisto la parata in tv e sui social».

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