Palestina, la sconfitta in Coppa d'Asia è in realtà un vittoria

Ci voleva un miracolo, e un miracolo non c’è stato: troppo evidente la differenza di valori con l’Iran, una delle più serie candidate al trionfo finale, che ha vinto 4-1

Rappresentare il tuo Paese su un campo di calcio. Rappresentarlo mentre la tua gente, i tuoi fratelli, il tuo popolo, muoiono, ogni minuto, sotto le bombe israeliane. "Pensare alla partita non è semplice: i miei ragazzi guardano tutto il tempo i telefonini. Cercano notizie. Lo fanno in albergo, sul bus che ci porta al campo d’allenamento, negli spogliatoi prima di iniziare il lavoro, e pure nelle pause di gioco. Non è facile ma ce la faremo: non siamo solo gli ambasciatori della nostra Nazione. Noi siamo la testimonianza vivente che la Palestina esiste". Così parlava, molto più che commosso, Makram Daboub, il ct della Palestina.

Palestina, la vittoria della vita

Ci voleva un miracolo, e un miracolo non c’è stato: troppo evidente la differenza di valori con l’Iran, una delle più serie candidate al trionfo finale, che stravince 4-1. Troppo grande la forbice dei valori: del resto la Palestina non ha, al contrario non solo degli iraniani, avversari nel match di ieri, ma anche di ogni altra Nazionale del Pianeta, la possibilità di avere un centro d’allenamento. I suoi giocatori non possono nemmeno allenarsi insieme: ai gazawi, infatti, non è consentito abbandonare la Striscia o meglio quello che ne resta dopo 100 giorni di guerra e oltre 23 mila morti, soprattutto donne e bimbi. Limitazioni tremende le soffrono pure i nazionali che vivono in Cisgiordania. Ecco perché la sconfitta sul campo, in realtà è una vittoria contro l’apartheid e contro il genocidio. Una vittoria della vita sulla morte.

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