#Kloppout, l’abusato diritto di esprimere (sempre) la propria opinione

#Kloppout, l’abusato diritto di esprimere (sempre) la propria opinione© Getty Images

Cosa fanno nella vita? Hanno un lavoro, una famiglia, degli amici reali? È suggestivo immaginarli soli e al buio, il volto illuminato dal bagliore del monitor, la frustrazione che ottunde i loro pensieri, mentre postano le loro infamanti sentenze sull’allenatore, sul dirigente o sul giocatore. Giudizi sempre definitivi: primo grado, secondo grado e Cassazione in pochi, spessi sgrammaticati, caratteri.

L’ultimo imputato di questo bislacco tribunale è Jurgen Klopp, l’allenatore che ha riportato il Liverpool a vincere la Champions e la Premier League (dopo 30 anni!), ma che ha osato pareggiare due partite e perderne una. E quindi è #kloppout, via Klopp insomma: cacciatelo, lo abbiamo deciso noi.

Sì, ma noi chi? Perché è noto quali scoli di pensieri reflui possano essere i social network, ma si indaga sempre poco sul contesto antropologico di chi i social li usa per licenziare con così solerte rapidità un tecnico il cui palmares, trascritto, occuperebbe almeno una decina di tweet. Chi è questa gente? Sono dei maltrattati dalla vita in cerca di una meschina vendetta? C’è fra di loro qualcuno di normale, che - per esempio - riesca a costruire un ragionamento plausibile intorno al loro rabbioso hashtag? Ma, soprattutto, dopo aver espresso il loro giudizio, si sentono meglio? Perché la funzione terapeutica di un social potrebbe anche essere accettata, purché nel profilo ci sia una spunta di un qualche colore a indicare che sono lì perché glielo ha detto lo psichiatra.

Intendiamoci, la critica non è solo un diritto, ma anche un segnale di salute della democrazia. Ma abusare di quel diritto ne fa perdere tutti i benefici. E qui tornano le domande: perché tutta questa fretta nello stroncare qualcuno? Perché si arriva sempre dritti alla condanna definitiva? Perché non ci sono sfumature e distinguo? Forse è la vertiginosa velocità delle telecomunicazioni a togliere il tempo di pensare o anche solo rileggere ciò che si scrive? O la vigliacca e confortevole sicurezza che regala l’anonimato?

Il paradosso, poi, è che queste ondate d’odio impediscono una critica più ragionata e stimolante. «Di loro posso dire solamente che mi hanno tolto il gusto di essere arrabbiato personalmente»: Giorgio Gaber non conosceva i social ma aveva inquadrato il problema. Cioè, Klopp sta sbagliando davvero qualcosa? C’è qualcosa che non funziona nel Liverpool di questa stagione? Probabilmente sì e servirebbe parlarne con un tono adeguato alle circostanze (stiamo parlando di una delle squadre più vincenti degli ultimi cinque anni), senza chiedere il licenziamento immediato, provando a riflettere, analizzare e, soprattutto, comprendere. Ma servirebbe un cervello, non una tastiera.

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