TORINO - (e.e.) L'Apache è sfregiato, l'Apache non dimentica, l'Apache ha un cuore grande così. Il pallone, per lui, è divertimento, salvezza dell'anima e del corpo. E leggendo e rileggendo la sua storia, si scopre un ragazzo più forte di tutto, determinato e generoso nel suo essere campione senza eguali. Segnato ma non dannato. Come dimostra anche la vicenda del papà, rapito e fortunatamente subito liberato.
L'ORIGINE - Carlos Tevez nasce il 5 febbraio 1984 a Ciudadela, nella parte ovest dell'area metropolitana di Buenos Aires, e cresce nel famigerato quartiere Ejército de los Andes, conosciuto come Fuerte Apache. Un nome, una certezza: l'insicurezza. «Ho avuto paura tante volte - evoca in qualche intervista -. Ricordo da bambino una notte in particolare: ero a letto, con i miei fratelli e i miei genitori, quando ho udito spari e urla dall'altro lato della finestra. Non bisognava mettere la testa fuori, dopo il tramonto. Lentamente, ci si abitua e si impara a dormire, così. Ma sapevo che non era normale, e nemmeno giusto».
IL GIGANTE - Nel barrio, il quartiere, adesso campeggiano i murales con la sua faccia e i colori dell'Albiceleste. Un lampo di gioia nell'oscurità della miseria. Non lo dimenticano, lo vedono ogni giorno, enorme, fantastico, quasi ieratico: lui ci è riuscito, è uno di noi. Droga e alcool la fanno ancora da padroni, ma i bambini hanno un idolo cui ispirarsi. Il ragazzo divenuto uomo attraverso un lungo cammino. Già, abbandona quelle case a 16 anni, quando il Boca gli trova un alloggio a Versailles (anche qui, il contrasto è nel nome...). E' il primo strappo. «Ma le mie radici restano lì», dove con la Fundación Carlos Tevez allestisce campetti e strutture per i giovani.
UCCISO CON 23 COLPI - L'Apache non rompe il cordone ombelicale, vive al Fuerte, sempre. Fiero di se stesso, anche quando ripensa alla vita come un'incredibile avventura. Il papà biologico, Juan Alberto Cabral, non lo riconosce e muore durante una sparatoria, vittima di 23 colpi, quando Carlitos ha appena cinque anni. La mamma naturale, conosciuta come Trina e con disturbi mentali, di cognome Martinez, ha alcune difficoltà. Destino incerto per il chico, quindi. La famiglia abita al primo piano, Torre B di Barragan 214, Nodo 1, a quasi 200 metri dal temutissimo 14, il complesso edificio dove comanda la banda dei Los Backstreets Boys. Da quelle parti ci sono anche l'ex fruttivendolo Raimundo Segundo Tevez e Adriana Martinez (sorella della mamma "autentica" di Carlitos che lo dà in adozione): loro si prendono cura del ragazzino, con i figli naturali Débora Gisell, Diego Daniel, Miguel Ángel e Ricardo Ariel. Un'unica famiglia, un clan monolitico che cresce, dà una formazione, un'educazione e anche un po' di sorriso al pequeño piojito che lo aveva perso.
IL POPCORN - Così, Carlitos diventa il figlio - e poi giocatore - del pueblo, del popolo. E prima di tornare chiama e avverte: «Zii, nonni, aspettatemi con un bel barbecue». Argentina, Brasile, Inghilterra le tappe del suo successo. «Difficile giocare in Premier? No, la parte difficile è stata giocare nel popcorn di Fuerte Apache: c'era sempre il rischio di tagliarsi con i vetri». Lui si ferisce, sì, ma con l'acqua calda. E le cicatrici, mai volute rimuovere, diventano simbolo di fierezza, senso di appartenenza. Cinquemila persone lo applaudono, sul campetto nuovo e splendente, quando nel 2010 inaugura la struttura regalata al barrio. «La vita adesso è più tranquilla», non meno pericolosa però.
UNITI - Ritrova anche l'amore della moglie Vanesa Mansilla, nel 2011, dopo la burrasca. I nomi delle figlie Florencia, la più grande, e Katie, la piccolina, sono tatuati sulla pelle, come quelli dei genitori e dei fratelli. E ora c’è il piccolo Lito, nato a Torino. «Per me sono tutto», ribadisce. A loro, con i primi guadagni, compra nuove abitazioni, per ultima Trina, quasi a chiudere il cerchio. La gente lo ama, qualcuno lo discute. Carlitos gioca anche a golf («handicap 13, miglioro tanto»), ma il cuore resta quello di un tempo. Grande così.