Atalanta, Gasperini: “Io e la Dea saremo più forti del virus"

Il tecnico dei nerazzurri: "A Valencia ci aspetta la partita più importante nei 112 anni di storia del club: il premio a uno straordinario lavoro di gruppo e ai nostri tifosi”
Atalanta, Gasperini: “Io e la Dea saremo più forti del virus"© Canoniero

Agli appuntamenti con la storia Gian Piero Gasperini ha fatto il callo, da quando allena l’Atalanta che ha preso in mano nell’estate 2016. La Dea scelse lui dopo essersi lasciata alle spalle un tredicesimo posto. Con il signore di Grugliasco sono arrivati un quarto, un settimo e un terzo posto, due campagne in Europa League, prima della straordinaria avventura in Champions e dell’attuale quarto posto, accompagnato dagli exploit di una società che nel 2019 ha sfiorato il fatturato di 200 milioni di euro, stabilendo anche il nuovo primato di utile di bilancio. «Stasera a Valencia ci aspetta la partita più importante nei 112 anni di storia dell’Atalanta. Se passiamo il turno, entriamo nei quarti di finale della Champions League, cioè nel novero delle prime otto squadre europee. Comunque vada, questo è il premio a quattro anni di straordinario lavoro collettivo: la squadra, i dirigenti, la società, i nostri incredibili tifosi, pazzi di noi. All’andata ce n’erano 45 mila a San Siro; al Mestalla giocheremo a porte chiuse, ma andremo in campo per loro, per Bergamo e per l’Italia che stanno soffrendo a causa dell’epidemia. Vogliamo dare una gioia a tutti in un momento così duro. Io e la Dea saremo più forti del virus. È una promessa». Dopo il 4-1 dell’andata, nel delirio bergamasco di San Siro, la partita del Mestalla se l’immagina diversa, Gasp. L’Atalanta gioca a porte chiuse in Spagna nel giorno in cui in Italia si ferma tutto lo sport italiano fino al 3 aprile, Serie A compresa. «Bisogna accettare ogni decisione che tuteli la salute di tutti i cittadini. Non si scherza con la salute. Il calcio non è un mondo a parte. Viviamo uno stato d’emergenza senza precedenti e come tale dobbiamo adeguarci, senza se e senza ma». Non è facile parlare di calcio al tempo del coronavirus e non potrebbe essere altrimenti. Il nemico invisibile ha già cambiato le nostre vite, ma il cittadino onorario di Bergamo, Gian Piero Gasperini, ha notato subito lo striscione che sta appeso su un cavalcavia all’ingresso della città, in guerra totale contro l’attacco del morbo, infido e micidiale. C’è scritto: «Mola mia», non mollare, caratteristica primaria della gens orobica che si riflette nelle vicende della squadra del cuore. A Bergamo non si dice: vado allo stadio. Si dice: vado all’Atalanta. Lo sai, Gian Piero? Il sorriso è eloquente: «Certo che lo so. Ti dirò una cosa: l’emozione che ho provato quando il sindaco Giorgio Gori mi ha attribuito la cittadinanza onoraria è stata una delle più forti della mia vita. Mi sono venute le lacrime agli occhi. Sai qual è una delle soddisfazioni più gratificanti che mi sono tolto in questi anni con la Dea? Avere regalato felicità ai bergamaschi. Sono cose che hanno un valore incredibile, come il legame con questa città, con la sua gente. Come gli applausi dei tifosi del Lecce dopo il 7-2 a Via del Mare». Come il rapporto con i Percassi? «Quello è eccezionale e durerà per sempre». Antonio, il presidente, l’estate scorsa ti ha prolungato il contratto sino al 2023, ma ha già detto che ti vuole almeno fino al 2025. Che effetto fa? Quando ti hanno chiesto se l’Atalanta possa vincere il campionato, com’è riuscito al Leicester in Inghilterra, quattro anni fa, hai risposto che, per realizzare l’impresa, bisognerebbe arrivare a 90 punti. Utopia? Sogno? Miraggio? Gasp sorride: «Se hai dei sogni, devi alimentarli, sennò che gusto c’è? Che cosa deve fare l’Atalanta in futuro? Non deve fermarsi mai, non deve tornare indietro, agli anni in cui partiva con il dichiarato obiettivo di salvarsi e la permanenza in Serie A costituiva il suo traguardo massimo. Il nostro compito è ricercare i nuovi Gomez, i nuovi Ilicic per mantenere la dimensione raggiunta in campo europeo».

L’interrompo. Hai detto: la dimensione raggiunta in campo europeo. Cioè la Champions League. Ma, citando Andrea Agnelli, ti stuzzico: è giusto che l’Atalanta sia in Champions League? «Non commento». Gasp è allineato e coperto sulle posizioni dei Percassi che la settimana scorsa non hanno voluto replicare alla provocazione londinese del presidente della Juve, il quale, posponendo la meritocrazia del campo all’agognata SuperLeague, ha suscitato la reazione di un vasto fronte trasversale filoatalantino. Dicevamo del Leicester... «Hai citato il suo exploit, ma c’è una grande differenza fra noi e il Leicester campione d’Inghilterra nel 2016 con Ranieri, entrato di diritto nella storia del calcio, Leicester che oggi occupa il terzo posto in Premier. I mezzi finanziari del club inglese sono molto rilevanti, grazie sia alla proprietà sia agli introiti tv, molto più equamente distribuiti rispetto all’Italia». Decisamente. Qui risiede l’eccezionalità del ciclo atalantino, che affonda le radici dove? «Che, tecnicamente, affonda le radici nella rosa ristretta a mia disposizione per la stagione in corso. Un organico compatto, ben definito: per la prima volta, rispetto alle prime mie due stagioni nerazzurre, mi ha consentito di lavorare con lo stesso gruppo dell’anno precedente, a parte Mancini, ceduto alla Roma. Malinovskyi e Muriel si sono inseriti con una disinvoltura disarmante; Caldara è tornato a casa in gennaio e ha soltanto bisogno di recuperare il tempo perduto nei due anni durante i quali ha riportato due gravi infortuni che avrebbero stroncato chiunque. Non Mattia». Gian Piero, è un caso, una coincidenza o invece un motivo che spiega molte cose il fatto che tu e Simone Inzaghi alleniate l’Atalanta e la Lazio da quattro anni? «Non credo sia un caso. La continuità della gestione tecnica è un fattore importante per ottenere risultati sempre migliori. Simone sta facendo uno splendido lavoro e merita i complimenti che gli arrivano da più parti. Non si collezionano 21 risultati utili consecutivi in campionato se l’allenatore non costruisce un gruppo capace di credere in se stesso al punto di viaggiare sulle ali dell’entusiasmo. Un gruppo dove tutti si aiutano, dove chi non gioca titolare si sente comunque protagonista. La Lazio ha meno pressione addosso rispetto a Juve e Inter e questo può essere un vantaggio nella lotta per il titolo, quando riprenderà». Esclusi i tuoi mattatori, quali sono i giocatori che ti hanno maggiormente impressionato in questo campionato? «Per primo, de Ligt. Lo juventino ha il futuro in pugno. Ha soltanto vent’anni, ma mi hanno colpito la sua maturità, la sua classe, il bagaglio tecnico e la stazza atletica. E poi Barella, Correa, Bastoni che abbiamo visto crescere a Zingonia, Luis Alberto che ha una tecnica da campione, Milinkovic Savic». E la Nazionale? L’Uefa asserisce che l’Europeo 2020 si giocherà sicuramente e tutti noi vorremmo possedere questa certezza. Sappiamo, invece, che dipenderà dall’evoluzione dell’epidemia. Nell’attesa, qual è il tuo giudizio sulla gestione Mancini? «Il giudizio è eccellente. Roberto ha fatto un lavoro a tutto campo, ha costruito una Nazionale ricca di talento e di motivazioni, ha restituito entusiasmo ai tifosi, ha ricreato l’amore per l’azzurro. Ha trasmesso alla squadra una mentalità vincente. Gli manca il fuoriclasse di cui ogni rappresentativa avverte il bisogno, ma questo non dipende dal commissario tecnico. Mancini è stato bravissimo: merita ogni soddisfazione».

E Sarri? Che cosa pensi di Sarri? Dopo la sconfitta di Lione è finito nel tritacarne della critica e anche di molti tifosi bianconeri: la vittoria sull’Inter gli ha restituito un’altra Juve. Quando il campionato ricomincerà, dove potrà arrivare Sarri? E come ti spieghi le difficoltà che ha incontrato, simili agli ostacoli che aveva dovuto superare alla guida del Chelsea, sino a vincere l’Europa League? «Come me le spiego? Con il cambiamento. Dopo lo straordinario quinquennio di Allegri, il successore ha bisogno del tempo necessario perché la squadra recepisca il suo calcio. E se quando il campionato ripartirà, Sarri centrasse il Triplete come riuscì a Mourinho dieci anni fa?». Wow! I tifosi juventini ti prendono in parola. Anche perché hanno Cristiano Ronaldo... «Il suo arrivo in Serie A è stato una benedizione. Il nostro calcio ha bisogno di avere i migliori giocatori, i più grandi. Io sul campo ho vissuto l’epoca di Platini, di Zico, di Rummenigge, di Maradona. Ronaldo è un fenomeno e non solo per il modo in cui gioca. A 35 anni, Ronaldo è un esempio di professionalità e di serietà. Ecco, serietà: la cura meticolosa con la quale si allena, la puntualità agli allenamenti, le motivazioni che lo spingono a non accontentarsi mai, la carica che sa trasmettere ai compagni, soprattutto nei momenti difficili. Da quando è arrivato in Italia, Cristiano continua a lanciare segnali positivi».

E il Var? Sbaglio o ce l’hai sempre sullo stomaco? Sei favorevole al Var a chiamata? «Mmm... No, non mi va di fare anche l’arbitro oltre all’allenatore. Il Var è importante, purché sia usato con uniformità di giudizio». Hai parlato dell’importanza dello spirito di squadra: nel corso del tempo, l’Atalanta è diventata una multinazionale. Ricapitolando: 4 italiani, 2 olandesi, 2 argentini, 2 colombiani, 1 belga, 1 brasiliano, 1 svizzero, 1 gambiano, 1 ivoriano, 1 ucraino, 2 tedeschi, 1 croato, 1 sloveno, 1 svizzero naturalizzato albanese, 1 francese. Mi spieghi come hai trasformato una Babele nella squadra che ha segnato 82 gol, 70 dei quali in 25 partite di campionato e 12 fra Champions e Coppa Italia? «È semplice: alleno una multinazionale bergamasca. I miei calciatori posseggono un forte senso di squadra. Mettono al centro l’interesse dell’Atalanta, anteponendolo a quello personale. Parlano lingue diverse, certo; tuttavia, calcisticamente si esprimono con lo stesso linguaggio. Questo è il risultato di una selezione che comincia quando scegliamo a uno a uno i giocatori della nostra rosa. È una selezione tecnica, atletica, ma prima di tutto comportamentale. Chi indossa la maglia dell’Atalanta non gioca per se stesso; gioca per la Dea, per i tifosi, per Bergamo. Qui c’è una cultura sportiva che affonda le sue radici a Zingonia, nel settore giovanile, nell’educazione dei ragazzi che ne fanno parte, nell’organizzazione della società dove ognuno ha il proprio ruolo e lo ricopre rispettando quelli altrui. Qui c’è un giocatore che non si trova né al mercato né al supermercato: si chiama Attaccamento alla Maglia». Vamos, Gasp? «Vamos!».

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