Quando Gianluca gli ha sorriso e si è abbassato per accarezzarlo, il bambino e l’ex campione erano uniti dalla stessa fragilità: teneramente e drammaticamente simili, segnati dalla malattia e dalla lotta che stanno combattendo per sconfiggerla. Ecco: lì, soprattutto lì, nelle stanze di un ospedale oncologico qual è il Bambino Gesù, in cui si curano i bambini, è emersa in tutta la sua evidenza la forza interiore di Gianluca Vialli. Perché i bambini sono lineari nella gestione del dolore, ma i grandi no: i grandi hanno sovrastrutture che li condizionano. Nella dolente ripetitività delle Vie Crucis a cui ti costringe il cancro, ogni individuo declina la propria risposta e costruisce la propria reazione: veste una corazza che lo isoli dal mondo o ci si tuffa dentro con voracità insaziabile, si lascia andare o combatte e nessuno, ma proprio nessuno, ha il diritto di giudicare.
Si può e si deve, questo sì, ammirarne la forza d’animo e la tenacia soprattutto quando vengono abbinate alla dolcezza di una matura consapevolezza. Quelle che abbiamo trovato nei sorrisi e nelle parole di Vialli, che non si preoccupa più di mettere i maglioni sotto la giacca per mascherare la magrezza, ma che vuole tornare a «fare le cose normali della vita, e lavorare è una cosa normale». Il posto per farlo è quello dove ci sono gli amici anzi, i «fratelli», come li chiama lui: Fausto Salsano con i suoi sorrisi e, ovvio, Roberto Mancini con i suoi silenzi. Ma loro, del resto, si capiscono con uno sguardo.
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