"Italia moribonda e in guerriglia coi club. Zero top azzurri in 15 anni. Spalletti? Gestione pessima"

L'intervista di Tuttosport a Mauro Berruto: "Perché non produciamo più talenti. Chi potrebbe giocare nella Spagna o nella Francia dei nostri? Donnarumma, forse..."

Buongiorno Mauro Berruto, la chiamiamo in causa per un sacco di ragioni: lei è stato un ct (azzurro, ma anche finlandese), è un uomo di sport (non solo volley, ha una visione e una cultura multidisciplinare e un’attitudine manageriale) ed è il parlamentare che ha spinto più di ogni altro per inserire lo sport nella Costituzione Italiana. Insomma, mischiando esperienza e sentimento: cosa ne pensa della situazione della Nazionale e, in generale, del calcio italiano?

«Al di là delle prestazioni mediocri, c’è qualcosa di peggio ed è la totale disaffezione verso la maglia azzurra. Mi fa impazzire. Anche perché è frutto della guerriglia permanente tra campionati e nazionali, tra club e nazionali. È più o meno così in tutti gli sport e, sinceramente, non bisogna essere dei geni per capire che una grande nazionale trascina il campionato e un ottimo campionato fa il bene della Nazionale. Si è così alterata la percezione di Nazionale, vissuta anche dagli atleti come un posto dove ci si stanca e ci si infortuna. È un tipo di cultura che non ho mai accettato da ct e non ho mai concepito da allenatore di club. Campionato e Nazionale sono sinergici in un sistema sano».

 

Effettivamente, però, il calendario è molto intasato e può essere stressante.

«Vero, ma è un problema per tutti gli allenatori. Non si capisce perché sia la Nazionale a essere una rottura di scatole. Poi mi auspico che tutte le componenti si siedano intorno a un tavolo e parlino finalmente in modo serio di questi calendari dopati. Ma questo non può e non deve essere un alibi per snobbare le nazionali, credo che si debba parlare del fatto culturale, del senso di appartenenza mancante e dell’assenza di rispetto verso l’azzurro».

Quand’è iniziato il declino dell’affezione per la maglia azzurra?

«Intanto posso dire che è un fenomeno trasversale agli sport, anche se con gradienti diversi. È un declino lento, come una morte per assideramento e, secondo me, è collocabile fra il 2006 e il 2010, possiamo scegliere il Mondiale in Sudafrica come punto di riferimento, anche perché negli ultimi quindici anni non siamo riusciti a tirare fuori un giocatore in grado di reggere il confronto con Spagna, Francia, ma anche Portogallo che mi sono visto l’altra sera. Chi potrebbe giocare nella Spagna o nella Francia dei nostri? Donnarumma, forse. Non aver tirato fuori un giocatore di spessore internazionale in 15 anni è un problema sistemico e va affrontato subito, a petto in fuori. Ed è un problema trasversale alle componenti: chi è più colpevole fra club, associazione allenatori, Figc, Lega? Un po’ tutti, no?».

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Secondo lei, quali sono le ragioni per cui non creiamo più talenti?

«Molteplici, proviamo a sintetizzare: decreto crescita, pochi o errati investimenti sui settori giovanili e poi aver appiattito la grande differenza tra allenatore da settore giovanile e allenatore da prima squadra. Se tratti quelli che allenano i giovani come quelli della prima squadra, non alleverai molti campioni, se fai andare avanti gli allenatori delle giovanili che vincono, innescherai dei meccanismi che, notoriamente, non producono campioni. E non valorizzerai gli allenatori che sono veramente degli istruttori. Credo che il problema dei nostri calciatori si annidi anche in questo meccanismo, un po’ perverso, di cercare i successi nelle giovanili, invece di cercare i ragazzi con talento e farli crescere bene».

Insomma, in questo caso sarebbe d’accordo con la separazione delle carriere: allenatori da prima squadra e allenatori, anzi istruttori delle giovanili?

«Guardi, le racconto del mio viaggio in Islanda, l’Islanda che aveva appena stupito tutti all’Europeo 2016. Quell’exploit era figlio di un programma di Governo per combattere alcool e tabacco che stavano diventando una piaga tra i giovani islandesi, lo sport era uno degli strumenti per combatterla. Quindi c’era un programma infrastrutturale per creare impianti, a quelle latitudini, ovviamente coperti, e studiare un piano di educazione allo sport. Bene, gli allenatori delle giovanili dovevano e devono prepararsi molto di più che quelli delle prime squadre. Devono superare esami più difficili, avere competenze interdisciplinari, studiare pedagogia e didattica, devono - con rispetto parlando - farsi un mazzo così per diventare allenatori. Gli islandesi hanno invertito la piramide perché devi essere più bravo e preparato per insegnare uno sport a un bambino che per allenare un adulto. I migliori insegnanti e allenatori andrebbero messi all’inizio della filiera, non alla fine. Perché una cattiva maestra elementare non fa andare all’Università un bambino, creando disinteresse per lo studio, mentre un cattivo professore Università non fermerà mai un talento, perché, a quel punto, lui troverà sempre altre strade per esprimersi».

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È una rivoluzione culturale poderosa. Il nostro sistema è in grado di applicarla? Voglio dire: il respiro è sempre corto, l’orizzonte non va oltre la partita successiva o, tutt’al più, la qualificazione al Mondiale. Come si fa a varare un piano che darà frutti, se tutto fila liscio, in 7/8 anni?

«È la parte più preoccupante della situazione del sistema calcio italiano che, peraltro, rispecchia quella del sistema Paese che vive con una politica in continua campagna elettorale. Se devi mantenere il consenso a breve, difficilmente farai riforme che danno frutti nel lungo, ma così ammazzi il futuro. Parlando del calcio, vorrei ricordare che non siamo in presenza di una serie di eventi sfortunati che possono combaciare con un periodo più o meno lungo di risultati negativi, qui c’è un processo involutivo che va avanti da almeno 15 anni e che per essere azzerato ne richiederà almeno la metà. È un’inerzia che non si cambia con uno schiocco di dita, che non risolvi con un guru sulla panchina della prima squadra, è un progetto culturale di lunga durata. Quando toccheremo il fondo per capire che non c’è più alternativa? Al terzo Mondiale saltato? Che poi non può essere la partecipazione al mondiale l’unico parametro, perché siamo in presenza di una picchiata di valori economici e morali, un disinteresse a livello internazionale dove fatichiamo a vendere i diritti tv e, ripeto, non produciamo un giocatore di alto livello da tre lustri. Che magari al Mondiale ci andiamo perché abbiamo uno spareggio fortunato e sotto quel tappeto nascondiamo la polvere».

Com’è stato per l’Europeo del 2021?

«Parlare male di una vittoria non si può, anche per una questione di rispetto per chi l’ha conquistata e vincere non è mai facile. Ma, con tutto il rispetto per quei ragazzi, quella coppa ci ha allontanato dalla realtà per qualche anno, rinviando ulteriormente la necessità di fare i conti con i nostri problemi».

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Il no di Ranieri ci ha risparmiato un ct con il doppio ruolo e tutte le inevitabili polemiche che sarebbero seguite. Eppure nel volley è capitato. Cosa ne pensa?

«Vado controcorrente rispetto al pensiero diffuso nella pallavolo, dove il ct chiedeva di poter allenare un club nei periodi in cui non c’erano impegni della Nazionale. Io quando sono stato ct ho chiesto che fosse inserito nel mio contratto che ricoprivo rigorosamente un solo ruolo. E nel periodo invernale mi dedicavo a progetti di sviluppo dei settori giovanili, mi ero inventato il tre contro tre per coinvolgere i ragazzi, giravano per le regioni incontrando i tecnici del territorio, seguivo e tenevo corsi di aggiornamento. Allenare una Nazionale deve essere un impegno totalizzante, credo sia doveroso per il Paese che si rappresenta dedicare tutte le proprio energie».

Che sensazione le ha dato la conferenza di Spalletti in cui annunciava il proprio licenziamento?

«Una modalità incredibile, una scena pessima: lui che annuncia quello che di fatto è un licenziamento senza che un dirigente sia al suo fianco e dica qualcosa. Chi occupa quei ruoli ha un ruolo istituzionale, rappresenta un’istituzione, ci vuole rispetto e anche una certa forma. Mandare poi un allenatore licenziato in panchina il giorno dopo è qualcosa che credo non abbia precedenti. Lo so che le storie finiscono, ma la gestisci in un certo modo: blindi la cosa, fai silenzio, giochi la partita e poi annunci. Ma con mestizia aggiungo che è solo un’altra immagine dello scolorimento dei sentimenti nei confronti della Nazionale e di una situazione confusa in cui si è perso il bandolo della matassa non solo su aspetti tecnici ma sulla gestione generale. A me viene il prurito quando vedo le pallavoliste che rinunciano alla Nazionale, la questione Acerbi, anche questa difficoltà a trovare un ct…Sono segnali di una debolezza e una fragilità che fanno troppo male. Indossare l’azzurro deve essere un onore, una forma di rispetto nei confronti di un’istituzione. Come abbiamo perso quella cosa lì? Come abbiamo fatto?».

 

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Buongiorno Mauro Berruto, la chiamiamo in causa per un sacco di ragioni: lei è stato un ct (azzurro, ma anche finlandese), è un uomo di sport (non solo volley, ha una visione e una cultura multidisciplinare e un’attitudine manageriale) ed è il parlamentare che ha spinto più di ogni altro per inserire lo sport nella Costituzione Italiana. Insomma, mischiando esperienza e sentimento: cosa ne pensa della situazione della Nazionale e, in generale, del calcio italiano?

«Al di là delle prestazioni mediocri, c’è qualcosa di peggio ed è la totale disaffezione verso la maglia azzurra. Mi fa impazzire. Anche perché è frutto della guerriglia permanente tra campionati e nazionali, tra club e nazionali. È più o meno così in tutti gli sport e, sinceramente, non bisogna essere dei geni per capire che una grande nazionale trascina il campionato e un ottimo campionato fa il bene della Nazionale. Si è così alterata la percezione di Nazionale, vissuta anche dagli atleti come un posto dove ci si stanca e ci si infortuna. È un tipo di cultura che non ho mai accettato da ct e non ho mai concepito da allenatore di club. Campionato e Nazionale sono sinergici in un sistema sano».

 

Effettivamente, però, il calendario è molto intasato e può essere stressante.

«Vero, ma è un problema per tutti gli allenatori. Non si capisce perché sia la Nazionale a essere una rottura di scatole. Poi mi auspico che tutte le componenti si siedano intorno a un tavolo e parlino finalmente in modo serio di questi calendari dopati. Ma questo non può e non deve essere un alibi per snobbare le nazionali, credo che si debba parlare del fatto culturale, del senso di appartenenza mancante e dell’assenza di rispetto verso l’azzurro».

Quand’è iniziato il declino dell’affezione per la maglia azzurra?

«Intanto posso dire che è un fenomeno trasversale agli sport, anche se con gradienti diversi. È un declino lento, come una morte per assideramento e, secondo me, è collocabile fra il 2006 e il 2010, possiamo scegliere il Mondiale in Sudafrica come punto di riferimento, anche perché negli ultimi quindici anni non siamo riusciti a tirare fuori un giocatore in grado di reggere il confronto con Spagna, Francia, ma anche Portogallo che mi sono visto l’altra sera. Chi potrebbe giocare nella Spagna o nella Francia dei nostri? Donnarumma, forse. Non aver tirato fuori un giocatore di spessore internazionale in 15 anni è un problema sistemico e va affrontato subito, a petto in fuori. Ed è un problema trasversale alle componenti: chi è più colpevole fra club, associazione allenatori, Figc, Lega? Un po’ tutti, no?».

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