È una rivoluzione culturale poderosa. Il nostro sistema è in grado di applicarla? Voglio dire: il respiro è sempre corto, l’orizzonte non va oltre la partita successiva o, tutt’al più, la qualificazione al Mondiale. Come si fa a varare un piano che darà frutti, se tutto fila liscio, in 7/8 anni?
«È la parte più preoccupante della situazione del sistema calcio italiano che, peraltro, rispecchia quella del sistema Paese che vive con una politica in continua campagna elettorale. Se devi mantenere il consenso a breve, difficilmente farai riforme che danno frutti nel lungo, ma così ammazzi il futuro. Parlando del calcio, vorrei ricordare che non siamo in presenza di una serie di eventi sfortunati che possono combaciare con un periodo più o meno lungo di risultati negativi, qui c’è un processo involutivo che va avanti da almeno 15 anni e che per essere azzerato ne richiederà almeno la metà. È un’inerzia che non si cambia con uno schiocco di dita, che non risolvi con un guru sulla panchina della prima squadra, è un progetto culturale di lunga durata. Quando toccheremo il fondo per capire che non c’è più alternativa? Al terzo Mondiale saltato? Che poi non può essere la partecipazione al mondiale l’unico parametro, perché siamo in presenza di una picchiata di valori economici e morali, un disinteresse a livello internazionale dove fatichiamo a vendere i diritti tv e, ripeto, non produciamo un giocatore di alto livello da tre lustri. Che magari al Mondiale ci andiamo perché abbiamo uno spareggio fortunato e sotto quel tappeto nascondiamo la polvere».
Com’è stato per l’Europeo del 2021?
«Parlare male di una vittoria non si può, anche per una questione di rispetto per chi l’ha conquistata e vincere non è mai facile. Ma, con tutto il rispetto per quei ragazzi, quella coppa ci ha allontanato dalla realtà per qualche anno, rinviando ulteriormente la necessità di fare i conti con i nostri problemi».