Il silenzio delle armi è talmente bello che quasi dispiace infrangerlo con un ragionamento sul risvolti geopolitici della partita di questa sera. Tanto più che siamo qui con il fiato sospeso, come prima dei rigori, in attesa di capire se questo silenzio possiamo chiamarlo pace oppure no. Intanto si gioca. Si gioca comunque e si sarebbe giocato comunque, anche senza il cessate il fuoco, con i massacri quotidiani e i bambini affamati. E sarebbe stata ancora più dura obbedire agli ordini dello sport tenendosi in equilibrio sulla sottilissima differenza che chi lo comanda ha individuato fra una guerra e un’altra, fra chi è da escludere subito e chi no. Stasera quel silenzio cancella qualche domanda e la rumorosa speranza che si trasformi in pace aiuta a non sentire i brontolii della coscienza. Ci sarebbe (e ci sarebbe stata) una scappatoia comunque molto onorevole, quella che consente sempre di isolare lo sport, di recintarlo dalle nefandezze del mondo, proprio come facevano i Greci che lo sport l’hanno inventato. Sì, sarebbe stato un modo per non affrontare gli imbarazzi che la questione Israele-palestinese crea in un Paese che da mezzo secolo la strumentalizza a livello di politica nazionale; ma sarebbe stato un modo onesto di farlo, perché tante volte lo sport è stato un terreno dove stemperare l’odio, unire quello che altrove si combatteva, tenere aperte le porte o, al massimo, difenderle solo con un portiere.
Sport e politica viaggiano insieme
Lo sport e la politica viaggiano insieme dall’inizio del secolo scorso, è inutile cercare di non vederlo. Quando si è provato a farlo, la storia ce lo ha sbattuto in faccia, come a Monaco 72, nel giorno in cui lo sport ha perso l’innocenza, mentre 6 allenatori, 5 atleti israeliani, 5 terroristi e un poliziotto tedesco perdevano la vita. Tenere fuori la politica dallo sport è da illusi, chiederle di rispettare le regole dello sport è invece da saggi. Ma è un discorso complicato e stasera si gioca.
Il silenzio delle armi
Giusto così, in fondo, soprattutto ora in cui si procede con passi delicati e con mosse prudenti nel disinnesco del conflitto, che è il primo indispensabile tassello per la pace che chissà quando verrà, chissà se verrà. Rendere inerte qualsiasi innesco possa frenare il processo di avvicinamento a Sharm el-Sheikh è un compito che passa anche attraverso la partita di questa sera. Si gioca, ognuno pensando a quello che vuole, anche che, forse, si sarebbe potuto non giocare e ci sarebbero state buone ragioni per farlo. Ma intanto si gioca, si deve giocare e si deve riflettere. Ecco, questa è una buona cosa che Italia-Israele offre. Perché boicottare una partita o non farlo restano gesti simbolici, di per sé non portano niente, se non attenzione su un tema, un argomento. Quindi, sia giocando, sia non giocando si ottiene lo stesso risultato: se ne parla e, volendo, si riflette sull’argomento. Perché di riflessioni abbiamo dannatamente bisogno, nella scia delle manifestazioni pacifiche, approfittando adesso del silenzio delle armi che confonde sempre le idee e riempie di rabbia e paura i cervelli. Ora che le armi hanno lasciato la strada libera, i pensieri vadano ai bambini uccisi, a quelli affamati, agli innocenti che ci hanno rimesso la vita. Sì, non sono grandi pensieri con cui accompagnare una partita di pallone. Ma per una volta ne vale la pena.
