Ora, al netto di chi prende posizione per ragioni chiamiamole politiche, ma più corretto sarebbe definirle faziose, perché oggi in Italia di politica ce n’è pochissima ma di faziosità si soffoca, siamo onesti: il decreto crescita, divenuto legge per favorire il rimpatrio dei cosiddetti cervelli in fuga e rilanciare lo sviluppo economico del Paese, è stato utilizzato dal mondo del calcio come il solito escamotage per favorire affari più simili a marchette – dove tutti potessero puppare qualcosa da una greppia sempre più bucherellata - che non a reali investimenti tecnici volti a ricostruire un sistema sportivo solido, realistico, sostenibile, etico.
Se il calcio italiano non regge più il confronto con quello inglese, e non solo, non è perché i nostri club pagano più tasse degli altri. È perché da troppo tempo spendono i loro soldi male, perché insipienza manageriale e intrallazzi da retrobottega hanno fatto lievitare valutazioni e stipendi in maniera ingiustificata e (infatti) difficilmente giustificabile in certi bilanci, perché è ridicolo che per scovare e ingaggiare un giocatore una società debba strapagare eserciti di mediatori e rappresentanti vari di qualcosa anziché allestire strutture di dirigenti e scout competenti e autosufficienti (il fatto che eccezioni virtuose tipo il Bologna di Sartori e Di Vaio, o come prima l’Atalanta, facciano così scalpore è emblematico). Adesso in troppi gridano allo scandalo dei settori giovanili che non si potranno più finanziare e coltivare, come se fino a ieri lo avessero davvero fatto. Fa specie sentir dire che a pagare sarà la competitività dei club italiani (italiani?) nelle eurocoppe - come se le tre squadre in finale nella scorsa stagione fossero figlie del decreto crescita - o di una Nazionale che per due edizioni di fila non è riuscita a qualificarsi ai Mondiali.
Calcio italiano, cosa fare