Rolando Maran, l'economista

Maran è come il dottor Frankenstein: è un allenatore specializzato a far alzare in piedi squadre che "per natura" dovrebbero stare giù
Rolando Maran, l'economista© © Roberto Garavaglia - ag. Aldo Liverani sas AG ALDO LIVERANI SAS

È vero che probabilmente prima o poi comincerà a perdere, come accade quasi sempre in Serie A alle squadre “fenomeno inatteso anzi rivelazione” dei gironi di andata. Ma gli anni in cui mancano queste margherite che spuntano fra le lastre di cemento delle big, il campionato è più noioso del baseball: quindi viva il Cagliari 2019 e speriamo nel 2020, non importa quanto durerà, e viva Rolando Maran, che come il dottor Frankenstein è specializzato a far alzare in piedi squadre che “per natura” dovrebbero stare giù. Un fenomeno che per trascinamento ha resuscitato non solo il mio entusiasmo sportivo, ma ha ringalluzzito una istintiva eccitazione per l’essenza del mio antico mestiere di cronista: la notizia è sempre l’uomo che morde il cane. E, come capita agli uomini che hanno più di cinquant’anni di esperienza (siate benevoli con l’eufemismo) richiamano in vita anche qualche ricordo.

La figurina Niccolai

Dopo aver assistito in tivù alla partita-mostro contro la Fiorentina (un 5-2 molto spiacevole per la mia anima viola) proprio mentre stavo per cominciare qualche riflessione su Maran, mi sono tornati in mente il Cagliari che vinse il suo unico scudetto nel 1969/70, esattamente cinquant’anni fa, e il suo colosso di Rodi, Gigi Riva, che ha compiuto in questi giorni 75 anni. Due giorni dopo erano tornati in mente anche a molti giornali, ma io ho un ricordo ulteriore: per il più controintuitivo dei campioni del dopoguerra, il difensore Comunardo Niccolai. Chiunque in quegli anni abbia giocato o collezionato le figurine Panini ce l’ha bene in mente: era la figurina più doppia della storia, la più facile da trovare, impossibile da scambiare, tutti i ragazzini avevano, legato con un doppio giro di elastico giallo, il pacchettino di doppie e un secondo più piccolo con l’inflazione di Comunardo Niccolai. E soprattutto, tutti sanno che era una leggenda dell’autogol, ma non molti ne conoscono il perché: non tanto per la quantità, ne segnò sei, Franco Baresi e Riccardo Ferri, alle sponde opposte del calcio milanese, ne fecero otto; quanto invece per la loro bellezza estetica (colpi di testa con traiettorie impossibili, addirittura dribbling) e l’umorismo con cui venivano commentate. Enrico Albertosi, che allora era il portiere dei sardi, lo considerava la sua bestia nera, tanto che Niccolai gli fece un gol buono quando passò a parare per la Fiorentina.

Riva disse «in realtà non ha fatto molte autoreti, però tutte belle, non si sporcava con una semplice deviazione». Il più spettacolare, da leggenda, fu quello che non gli riuscì: nel 1972, a Catanzaro, novantesimo minuto, il Cagliari sta vincendo ma è sotto pressione, dagli spalti parte un fischio ma Niccolai pensa che sia dell’arbitro che chiude l’incontro, tira una pallonata liberatoria verso gli spalti ma la palla resta bassa e va verso la porta: al centrocampista Mario Brugnera, che è sulla traiettoria, non resta che fermarlo con le mani. L’arbitro Concetto Lo Bello fischia rigore, gol e 2-2 finale. Io ho conosciuto Niccolai, l’ho sempre difeso perché oltre che una persona degnissima è stato un grande calciatore, solo che di tanto in tanto omaggiava gli avversari con qualche autorete. La sua vicenda sportiva, che tra altro è stata nobile anche dopo il suo ritiro dal calcio giocato, negli anni Novanta ha anche allenato la nazionale femminile e oggi è osservatore per gli Azzurri, è di conclamata umanità. È un uomo colto e intelligente, e so che per anni ha vissuto male questa nomea, a lui sarebbe piaciuto essere ricordato per il Mondiale di Mexico ’70, perché Valcareggi (altro che autogol, è stato un centrale insuperabile) lo volle nella spedizione azzurra che cedette solo al Brasile di Pelè. Ma infine se ne è fatto una ragione: «La mia fama va al di là di quella di altri colleghi molto più bravi di me, perché miei gol fanno invidia agli attaccanti, tanto sono belli?». È parecchio tempo che non lo sento, mi piacerebbe sapere la sua opinione sul Cagliari di oggi, che ha qualche similitudine con quello di Manlio Scopigno, il tecnico-filosofo del tricolore.

Il caso Cagliari

A proposito del presente, sul mio giornale, Libero, è stato recentemente pubblicato un articolo in cui vengono espresse perplessità sulla scelta del Brescia di silurare Eugenio Corini e mettere in mano a Fabio Grosso le Rondinelle (tempi non sospetti, prima del tragico poker subito in casa sotto la nuova gestione, contro il Torino). L’esatto opposto di quanto ha fatto il presidente della Fiorentina Rocco Commisso, che non solo in panchina ha confermato Vincenzo Montella dopo una serie indigeribile di sconfitte e una salvezza presa per i capelli nella scorsa stagione, ma ha difeso la sua scelta anche dopo un inizio di campionato per niente incoraggiante. I risultati sembrano avergli dato ragione, se vogliamo considerare un incidente la cinquina incassata per mano del Cagliari, che al momento sembra di un’altra categoria. Dopo aver visto il gioco dei sardi, sono ancor più convinto che la fretta, un non-sistema di valutazione al quale molte società di serie A finiscono con l’abdicare, cioè “vincere subito o cambiare subito” equivalga a un lancio di dadi. Il caso del Cagliari di quest’anno, che dopo una stagione anonima invece di cambiare tutto ha confermato e rafforzato l’organico e del suo tecnico, Rolando Maran, ha una certa somiglianza, nell’idea di un progetto strutturato sul medio termine, con quello della Viola. I 24 punti in 12 partite del Cagliari sono il frutto certamente di una rosa migliorata soprattuto a centrocampo (gli arrivi di Rog, Nainggolan e Nandez, investimenti resi possibili dalla cessione di Barella), ma soprattutto della malleabilità tattica di Maran, che con il presidente Tommaso Giulini forma una coppia di formidabili economi, nel senso del massimo rendimento con le forze che si hanno.

Trentino sardo 

Riprendo un concetto espresso poco fa su Niccolai. Rolando Maran è il re del controintuitivo. Nasce difensore, e le sue squadre sono votate all’attacco, al gioco verticale, al blocco dell’avversario nel mezzo del campo. Diversamente dal barocco Scopigno, è uno che va dritto al nocciolo delle questioni. È un trentino che dice di esser nato per sciare, cosa che fa in ogni momento libero, ma che ha trovato la consacrazione in una terra marittima. Un’opposizione “territoriale” in realtà apparente, perché i trentini, ha osservato proprio lui in un’intervista, sono «lottatori come i sardi e ugualmente orgogliosi del loro territorio, con un fortissimo senso di appartenenza». In campo, dice, «la cosa bella è che questa squadra ha una determinazione tale che vuole sempre dal primo all’ultimo minuto portare a casa la vittoria con grande ferocia». Una ferocia che Maran aveva manifestato come calciatore, già all’esordio da professionista nel 1986, a 22 anni, con il Chievo che aveva conquistato la serie C2: al primo allenamento arriva malato, ha l’influenza ma non lo dice a nessuno, scende in campo e fa finta di niente. Viene dalla Benacense Riva di Riva del Garda, che gioca nell’Interregionale, non può lasciarsi scappare questa occasione. In nove anni porta da capitano il Chievo in serie B, giocando 330 partite.

Che scalata

Da allenatore comincia nel 1997 come vice di Silvio Baldini al Chievo, poi fino al 2012 salta da una squadra all’altra, con risultati altalenanti. Sono gli anni della maturazione, di cui si vedono i frutti con l’arrivo al Catania, e al primo anno serie A consegue il record di punti per la squadra siciliana, 56. La stagione seguente è molto travagliata, viene esonerato e recuperato due volte, ma il Chievo è nel suo destino, e lì arriva nel 2014, all’ottava giornata, in sostituzione di Eugenio Corini. Conquista la salvezza con cinque giornate di anticipo e comincia il ciclo che trasformerà il Chievo da Cenerentola a signora della piccola borghesia della serie A, affrancata dall’incubo retrocessione. Il Chievo di Maran degli anni dopo è una rivelazione anche perché è quello che non ti immagini: è la squadra con l’età media più alta ma è anche quella che corre di più, e sfrutta tutte le astuzie tattiche che servono quando si ha un tasso tecnico e fisico inferiore agli avversari. Le due più evidenti sono la densità di centrocampisti al centro per costringere l’avversario a spostarsi sulle fasce e andare al cross in area, dove si trovano difensori alti e forti di testa. E un uso intensivo del “velo”, cioè avere più di un giocatore sulla linea del passaggio, anche per molti metri, così che gli avversari non sanno a chi sarà diretto e finiscono scompaginati.

La tattica del velo

Questa del “velo” è una tattica che Maran ha portato a Cagliari, che fortunatamente quest’anno ha un tasso tecnico decisamente migliore. Il punto di forza della squadra rimane la capacità di conformarsi agli avversari, solida in difesa e portata alla verticalizzazione, ma con i tre inserimenti di cui dicevamo ha intensificato il possesso palla a scapito di qualche contropiede in meno. Lo scorso anno Leonardo Pavoletti aveva fatto 11 gol di testa, un’efficacia spaventosa che aveva finito con il condizionare tutto l’impianto di gioco del Cagliari. Ma quest’anno si è infortunato subito e gravemente, rottura del legamento crociato contro il Brescia, è arrivato Giovanni Simeone dalla Fiorentina, Joao Pedro è diventato una mitraglia e il Cagliari si è messo a giocare palla a terra. Nainggolan, che ha fortemente voluto tornare a Cagliari, ha accettato il ruolo di leader in campo, senza pretendere un trattamento da superstar, e dove si sono aperti degli strappi il portiere Olsen ha salvato il risultato almeno venti volte. Maran, con parsimonia e forse un po’ di fatica, a tratti cerca anche di essere, a suo modo, “social”: una volta è entrato in un bar e (però pare su invito dei clienti che lo avevano riconosciuto) ha offerto da bere a tutti. Ha anche dichiarato che se il Cagliari avesse centrato l’ingresso in un torneo continentale si sarebbe tatuato i Quattro Mori, poi però ha anche prudentemente ritrattato. Può essere che a maggio, con un po’ di fortuna, vedremo la compagine di Maran in zona Europa League, quest’anno il primo posto è una questione fra Inter e Juve. Ma da tempo ho capito che lo scudetto, per noi che amiamo il calcio, è un dettaglio marginale. Una indagine Ipsos ha mostrato che un tifoso rossoblù su due è anche supporter della Dinamo Sassari di basket, allenata da Gianmarco Pozzecco. Canestro e pallone, Cagliari e Sassari, la distruzione del campanilismo all’italiana. Questo avviene perché noi che amiamo lo sport vogliamo le imprese impossibili anche se durano poco, il piccolo che si fa grande, Davide che batte Golia. Perché ci dà speranza, il segnale che il destino non è sempre segnato. Magari solo per un girone, per dieci partite, per una trasferta corsara in casa dei predestinati. Il Cagliari di Maran è una di queste occasioni per sorridere, fosse anche solo un pugno di singoli marameo al novantesimo; e magari, a fine stagione, guardando la classifica, un “tiè”

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