25 anni fa l'addio a Fortunato: aiutò a costruire la Juve di oggi

Il coraggio con cui lottò contro la leucemia ispirò i compagni nella stagione dello scudetto, che è anche merito suo
25 anni fa l'addio a Fortunato: aiutò a costruire la Juve di oggi
TORINO - De Andrè sosteneva, a ragione, che crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio. Non che farlo il 25 aprile, tre mesi prima di riuscire a compiere 24 anni, ne richieda di meno. Anzi. Ma Andrea Fortunato di coraggio ne aveva e, quando finiva, riusciva a costruirselo da solo e darne agli altri. Lo sanno bene i suoi compagni di squadra, lo sa bene quella Juventus che venticinque anni fa ha piantato i semi per il quarto di secolo più glorioso della società, i cui frutti in termini di valori, senso di appartenenza ed etica maturano ancora oggi. E uno di quei semi è quello di Andrea che ha contribuito non poco a forgiare il carattere di quella Juventus, quella dello scudetto della rinascita, della Champions di Roma e tutto il resto. 

Quello scudetto, il primo dell’era Lippi, gli fu dedicato. Ma quello scudetto era già suo, in quel gruppo c’era la forza che lui aveva dato ai compagni. Sì, va bene, non aveva nemmeno un minuto di presenza in campo e non era riuscito mai ad allenarsi con la squadra in quella stagione, ma viveva con la squadra e la sua battaglia contro la leucemia era un altro campionato in cui tutta la Juventus era impegnata insieme a lui. E quante energie, quante motivazioni ha dato a quei giocatori che si stavano cementando intorno al carisma di Gianluca Vialli, al sorgente talento di Del Piero, all’abnegazione di Ravanelli, che Fortunato considerava un fratello acquisito, e a una serie di giocatori che stavano costruendo quello scudetto sulle profonde doti umane prima ancora che sulle indiscutibili qualità calcistiche. 

Si sentivano spesso. Ognuno lo chiamava, ognuno aveva stabilito con lui un rapporto personale, ma l’abbraccio era collettivo. Ma non era la compassionevole e lacrimosa assistenza a un amico malato quella che si era stabilita fra la squadra e Fortunato negli undici mesi di malattia, diagnosticata il 20 maggio del 1994 nella Divisione Universitaria di Ematologia delle Molinette di Torino, dove scrissero l’agghiacciante sentenza: leucemia acuta linfoide. 

Fortunato informava sull’evoluzione del male, sui suoi progressi conquistati con le lacrime, sui crolli psicologici, sul dolore intenso provato, sull’ansia delle notti che a volte non passavano mai. Ma i suoi non erano bollettini medici, era cronaca sportiva. Andrea aveva svoltato quasi subito, lasciando da una parte lo sconforto e affrontando la leucemia nell’unico modo in cui aveva sempre affrontato le sfide importanti della sua vita: come una partita. «Questa la vinco io», ha sempre detto.  

Parlava ai compagni con un linguaggio e dei riferimenti calcistici che risuonavano in loro anche durante gli allenamenti e durante le partite. E come può anche solo sfiorarti l’idea di mollare quando ripensi alle parole del tuo amico che lottava per la sua vita. Ogni sforzo, anche il più asfissiante, era superabile se pensavano ad Andrea.  

E Andrea intanto giocava la sua partita fra continui rovesciamenti di fronte, avrebbe detto un bravo radiocronista. Le speranze dopo il trapianto di midollo della sorella, che però non aveva funzionato, poi il raggio di luce improvviso quando quello del padre aveva attecchito e Fortunato era addirittura uscito dall’ospedale di Perugia, dove si stava curando, e aveva iniziato un percorso riabilitativo, gradito e coccolato ospite nella palestra del Perugia Calcio. 

Era riuscito anche a rivedere tutta la squadra, raggiungendola a Genova, prima della partita contro la Sampdoria. Era il 25 febbraio, esattamente due mesi prima di morire. Con il padre aveva viaggiato da Perugia a Genova, dove aveva giocato in rossoblù, e aveva fatto tappa al Novotel per abbracciare i compagni. «Mi riconoscete», aveva detto timido, con un cappellino in testa, il viso reso più tondo della cure, ma il sorriso uguale, solare, disarmante: «State andando fortissimo, continuate così che questo scudetto lo sentirò un po’ mio». Era stato un incontro commovente, ma anche carico di energia. E il giorno dopo la Juventus aveva vinto 1-0 con un gol a dieci dalla fine di Vialli, l’ultimo a mollare in nome di Andrea. Di lì a poco la notizia che la malattia era di nuovo partita vigliaccamente in contropiede. La squadra sapeva e la squadra aveva deciso di prendersi lo scudetto prima che la leucemia si prendesse Andrea. Quella festa, lui, la doveva vivere, fors’anche in televisione, ma la doveva vedere.  

E il 25 aprile, quando la terribile notizia aveva colto i giocatori della Juventus sparpagliati per le varie nazionali, lo scudetto era molto vicino, ma non era ancora vinto. Fu il più grande rammarico per quel gruppo che battendo 4-0 il Parma il 21 maggio avrebbero conquistato il titolo. Non era passato neppure un mese, ce l’avevano quasi fatta. E ce l’aveva fatta anche Andrea, con la sua umanità e il suo coraggio, a costruire il carattere di quella squadra che vinse tutto e oggi, in fondo, vive ancora di quella forza morale per la quale non ci si arrende mai, fino alla fine. E quello non è stato uno scudetto dedicato a Fortunato, ma uno scudetto di Fortunato. 

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