Juve, Villar Perosa per Beccantini: "Un ponte tra epoche, uomini prima di calciatori"

Lo Speciale di Tuttosport sullo storico appuntamento di inizio stagione: racconti, interviste, reportage e curiosità
Juve, Villar Perosa per Beccantini: "Un ponte tra epoche, uomini prima di calciatori"

Roberto Beccantini ha mezzo secolo di giornalismo sportivo alle spalle, durante il quale ha raccontato tutto, spesso meglio di tutti. Me nell’enclicopedia del suo cuore, Villar Perosa è un capitolo particolare. E corposo. Suo padre Mario vi dedicava le sue vacanze, santificandole al tifo per la Juventus. Così Roberto non è mai riuscito a essere indifferente di fronte al rito estivo che raccoglie i tifosi della squadra più amata d’Italia (anche più odiata, ma è un’altra storia) in un minuscolo paesino della Val Chisone. Frequentato da figlio e da professionista.

Buongiorno Roberto, dico Villar Perosa, cosa pensi?

«A Villar mio papà era l’unico ospite “laico” del’albergo della Juventus. Nel senso che una rispettosa amicizia con Boniperti consentiva, a lui tifoso, di soggiornare insieme ai suoi idoli. Era entrato in sintonia anche con Trapattoni e con il suo vice Bizzotto, l’ombra che faceva luce, una pasta d’uomo che ricordo con grande affetto. Papà Mario andava anche all’epoca di Parola, ma era più legato all’epoca trapattoniana».

La tua prima volta?

«Nel 1968, avevo 17 anni. Fu un’emozione, lo ammetto. Fu la prima del giovane Benetti che segnò su rigore, poi tripletta di Haller».

E da giornalista?

«Andavo poco, perché se c’era mio papà volevo evitare il conflitto di interessi, Anche se poi tutti i colleghi lo usavano come “corrispondente” nell’albergo bianconero. Fondamentale per tutti era sapere quando sarebbe arrivato l’Avvocato. E lui spesso ci chiamava con la soffiata giusta in modo da farci salire in tempo».

Oggi come concepisci il senso di Villar?

«Un viaggio archeologico in un altro calcio. Una rappresentazione sacra in un ambito pagano. Qualcosa che tocca emozioni infantili».

I giovani di oggi lo capiscono?

«Non lo so. So che Villar è ponticello esile, ma vitale, fra il calcio romantico di un tempo e quello di oggi che va troppo veloce. È una giornata che riavvicina giocatori e tifosi, un evento in cui la partitella non conta granché dal punto di vista tecnico, ma con quel contorno e il significato che la famiglia Agnelli ha dato a questo rito è come se una lametta da barba diventasse durlindana. È una scampagnata, qualcosa di simile anche alle feste dell’Unità di quando il segretario del Pci era Berlinguer».

Villar uguale Agnelli: equazione scontata?

«No, perché nel campetto di Villar Perosa si specchia il miracolo di una proprietà centenaria, caso unico nello sport. La stessa famiglia che di generazione in generazione ha tramandato la squadra e la tradizione. Non è poco».

Ricordi personali?

«Ho inziato nel 1970 a Tuttsport ma seguivo il basket. Con il calcio ho iniziato nel 1974. Villar per noi cronisti significava Avvocato, nella speranza di avere qualche dichiarazione. Il ritiro all’epoca si svolgeva tutto lì ed erano due o tre settimane piuttosto noiose, l’elicottero che atterava era uno dei momento che poteva rendere tutto più elettrizzante. Una leggenda metropolitana che diventava realtà».

Un’estate particolare?

«Beh, quella del 1982 con la rivolta dei campioni del mondo. Paolo Rossi, Claudio Gentile e Marco Tardelli volevano giustamente più soldi ed era la prima volta che i calciatori rivendicavano pubblicamente e così rumorosamente le loro istanze. Comparivano i primi parenti in rappresentanza dei giocatori, i primi consiglieri, che poi diventarono consigliori e poi agenti. In fondo quell’estate fu gettato il seme della jungla cresciuta ora. Ma allora Villar era una questione di uomini più che di calciatori».

Tipo?

«Nella Camelot juventina di quell’epoca come dimenticare la pipa di De Maria, essere umano straordinario, e di La Neve. E di Alberto Refrigeri».

Oggi vanno in tour negli Stati Uniti o in Cina, poi però tornano a Villar.

«Meno male. Per tutte e due le cose. I tour all’estero ci hanno visto arrivare tardi rispetto agli inglesi che così hanno conquistato l’Asia. Ed è bello che dopo Los Angeles ci sia comunque la tappa a Villar».

E i tifosi delle altre squadre cosa ne pensano secondo te?

«Guardano incuriositi. Magari sorridono, sotto sotto invidiano, perché una cosa del genere è unica al mondo».

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