Pagina 3 | Scirea, uomo e campione, unisce storia e filosofia della Juventus

Giovani juventini, chiedete chi era Gaetano Scirea. Chiedetelo ai vostri genitori, a zie e zii, ai nonni, niente google stavolta, perché servono una voce e un racconto che seguano il filo delle emozioni, imboccando quando è il momento giusto il bivio per l’orgoglio, perché è lì che finisce ogni storia su Scirea, dove si sente più forte che in ogni altro luogo bianconero la fierezza del tifoso juventino. Scirea ha incarnato la juventinità più pura, ma nello stesso tempo l’ha definita attraverso la straordinaria coerenza con cui ha unito l’uomo e il calciatore, ovvero la persona meravigliosa che è stata e il campione che ha vinto tutto (nel senso letterale del termine). E qui si concentra l’unicità di Scirea che riesce a fondere la storia e la filosofia bianconere.

Un fenomeno autentico

Scirea è, infatti, un campione. Un fenomeno autentico, perché innovativo nel suo ruolo in campo, dotato di un tecnica micidiale e di un’intelligenza calcistica superiore. Scirea era, per l’almanacco del calcio, un difensore, un libero per dirla con i nomi dei ruoli del suo calcio che oggi non c’è più. Ma Scirea si muoveva per tutto il campo e lo faceva con una dimestichezza totale: era difensore quando stava nella sua trequarti, era centrocampista quando organizzava il gioco avanzando a testa alta, era attaccante quando si faceva trovare in area avversaria, con tempismo da centravanti di esperienza. Aveva piedi educati e visione di gioco, anzi “comprensione del gioco”, che è ancora meglio: perché non si limitava a vedere l’azione, la capiva in anticipo e questo gli consentiva di fare sempre la scelta giusta.

Scirea mai espulso

Mai espulso in carriera, difendeva con puntualità e pulizia impressionanti, senza mai dover ricorrere al fallo per fermare un attaccante. In compenso metteva in grande difficoltà gli avversari che lo dovevano gestire quando avanzava. Renato Zaccarelli, feroce avversario in campo e grande amico fuori (ai tempi in cui i giocatori di Juventus e Toro si odiavano sportivamente e si rispettavano umanamente), un giorno ha spiegato: «Era un bel casino quando lo vedevi partire palla al piede, perché non sapevi dove aspettarlo e come prenderlo. Se rinculavi ti fregava con un passaggio smarcante, se lo aggredivi poteva anche saltarti». Scirea era insomma un giocatore totale, perno della Juventus per quattordici anni e della Nazionale campione del mondo nel 1982, anche grazie alle sue prestazioni e giocate, non ultima quella che nella finale contro la Germania lo ha visto, lui difensore, gestire il pallone in area avversaria, scambiandolo con Gentile, prima di offrire a Tardelli la palla del 2-0 con la scioltezza di un trequartista.

L'eccezionalità di Scirea

Scirea, dunque, è stato un campione. Un campione fenomenale, ma in fondo la Juventus e il calcio ne hanno avuti tanti di fenomeni. L’eccezionalità di Scirea è che racchiudeva questo campione in uomo educato, corretto, saggio e leale. Una persona che applicava sempre le vere regole dello sport, perché aveva imparato quelle della vita in una famiglia povera ma tenace, nella quale i valori della vita erano gli unici pilastri su cui costruire il resto. Si rischia sempre di scivolare sulla retorica quando si racconta lo Scirea uomo, di sembrare esagerati nello scolpire una specie di santo laico, perché la memoria smussa gli spigoli e sballa le proporzioni dei pregi, ma andate a parlare con chi lo ha conosciuto, con i compagni e soprattutto con gli avversari, con gli amici e con chi lo ha visto anche solo una sera. Tutti, nessuno escluso, cambieranno il tono della voce nel raccontare la loro storia su Scirea. Tutti, nessuno escluso, andranno sopra le righe per riuscire a farvi uscire come le hanno percepite le doti umane di Gaetano. Anche i tifosi delle altre squadre, perfino quelle che più odiano i colori bianconeri provavano rispetto per lui. «Ci insultavano sempre molto negli stadi avversari», racconta spesso Tardelli: «Ma nessuno riusciva a insultare Gaetano. Quando scendeva lui dal pullman, con il suo volto sereno, lo sguardo pulito che poteva incrociare con quello di chiunque, e c’era sempre un attimo di silenzio, poi ricominciavano con le urla».

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Voleva sempre vincere

Questo perché Scirea non era mai scorretto in campo, non era mai sopra le righe, offriva talmente tanto rispetto che ne riceveva in cambio il doppio. Voleva vincere, sempre, ogni partita che giocava, ogni manifestazione alla quale partecipava, ma non voleva mai umiliare l’avversario e aveva sempre in mente gli occhi di chi guardava la partita. Renzo Contratto raccontava spesso un episodio durante una partita fra Juventus e Fiorentina: «Scoppia una gazzarra dopo un fallo contestato, spintoni, minacce, insulti, l’arbitro sta quasi perdendo il controllo della situazione quando arriva Scirea, calmissimo e ci dice: “Ma cosa state facendo? Ci sono le vostre mogli e i vostri figli in tribuna che ci guardano”. In pochi secondi tutti si erano calmati e tenevano lo sguardo basso vergognandosi un po’. Scirea aveva detto la cosa giusta».

Cosa scriveva Gianni Brera

Scirea era un tipo silenzioso, perché misurava tutto: i passi che servivano ad anticipare un attaccante senza sfiorarlo e le parole utili a dire qualcosa di sensato. Quest’ultima caratteristica lo portava a stare molto in silenzio, perché in fondo le cose giuste da dire sono poche e si possono sintetizzare senza troppa poesia. Per quanto, nella sua essenzialità umana, Scirea era estremamente poetico. Scriveva di lui Gianni Brera: «Era dolce e composto, di una moderazione tipica del grande artista. Non era difensore irresistibile né arcigno, era buono, ma completava il repertorio con sortite di esemplare tempestività, a volte erigendosi addirittura a match winner».

L'esempio in allenamento

In tutto questo c’era tanta juventinità. Lui, lombardo, amava il profilo basso dei piemontesi che tanto si sposava con lo stile Juventus, che negli anni in cui ha giocato si consolidava fra l’austera presidenza di Boniperti e la classe di Gianni e Umberto Agnelli. Scirea vinceva, festeggiava con moderazione e poi, con la stessa umiltà che aveva prima di vincere, si metteva a progettare un’altra vittoria. Dando l’esempio in allenamento, parlando con chi era in difficoltà dentro lo spogliatoio, non eccitando mai le folle, ma concedendosi a qualsiasi tifoso volesse una fotografia, un autografo o un semplice sorriso. «Tutto questo è stato ed è profondamente juventino, tutto questo è quello che deve essere uno juventino», ha spiegato Giampiero Boniperti.

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Un punto di riferimento

Nelle squadre di cui è stato capitano nel corso dei suoi quattordici anni bianconeri, tutti lo prendevano a esempio, ovviamente pochi riuscivano veramente imitarlo, ma restava un punto di riferimento a cui tendere. «Sarebbe diventato un grandissimo allenatore», diceva di lui Dino Zoff, eterno amico che lo aveva voluto come suo secondo in panchina. Durò poco la loro Juventus: un po’ perché la tragedia di Babsk, il 3 settembre 1989, rubò a tutti Gaetano; un po’ perché Zoff allennò la Juve solo due stagioni. Zoff e Scirea, insieme, avrebbero ancora insegnato calcio e juventinità, tecnica e stile, tattica e umanità: usando sempre poche ed efficacissime parole.

L'eredità di Scirea

L’esempio però è stato tramandato, Scirea vive ancora nel mondo della Juventus e non solo perché papà, mamme, zii e nonni possono raccontare chi sia stato, ma perché in qualche modo il club ne ha sempre conservato qualcosa e se Giorgio Chiellini, che quando Scirea è scomparso aveva solo cinque anni e forse ne aveva appena sentito parlare, ha voluto scrivere un libro su di lui, significa che il testimone passa ancora di mano in mano e Scirea resta il fratello maggiore di tutta la grande famiglia juventina.

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Un punto di riferimento

Nelle squadre di cui è stato capitano nel corso dei suoi quattordici anni bianconeri, tutti lo prendevano a esempio, ovviamente pochi riuscivano veramente imitarlo, ma restava un punto di riferimento a cui tendere. «Sarebbe diventato un grandissimo allenatore», diceva di lui Dino Zoff, eterno amico che lo aveva voluto come suo secondo in panchina. Durò poco la loro Juventus: un po’ perché la tragedia di Babsk, il 3 settembre 1989, rubò a tutti Gaetano; un po’ perché Zoff allennò la Juve solo due stagioni. Zoff e Scirea, insieme, avrebbero ancora insegnato calcio e juventinità, tecnica e stile, tattica e umanità: usando sempre poche ed efficacissime parole.

L'eredità di Scirea

L’esempio però è stato tramandato, Scirea vive ancora nel mondo della Juventus e non solo perché papà, mamme, zii e nonni possono raccontare chi sia stato, ma perché in qualche modo il club ne ha sempre conservato qualcosa e se Giorgio Chiellini, che quando Scirea è scomparso aveva solo cinque anni e forse ne aveva appena sentito parlare, ha voluto scrivere un libro su di lui, significa che il testimone passa ancora di mano in mano e Scirea resta il fratello maggiore di tutta la grande famiglia juventina.

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