Juve, il processo mediatico fa danni che nessuno paga

Vittorio Manes, professore di diritto penale: "In questa fase circolano solamente le tesi dell’accusa e le intercettazioni telefoniche non rappresentano la realtà”

Vittorio Manes è professore di Diritto penale all’Università di Bologna, è un noto avvocato e a maggio ha pubblicato un libro che sembra la cronaca di questi giorni: si intitola “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo”. Contiene una profonda analisi di quanto i mass media possano inquinare l’iter giudiziario e violare in modo grave il principio della presunzione di innocenza e i diritti fondamentali. Il modo in cui i media stanno trattando l’inchiesta della Procura di Torino sulla Juventus ne è un esempio lampante e di clamorosa attualità: «Vero, ma non voglio assolutamente entrare nel merito della vicenda, per rispetto degli inquirenti e degli indagati. Non commento i processi nei quali sono coinvolto da avvocato, a maggior ragione quelli di cui ho poche o nulle informazioni», spiega Manes. Ma il problema di diritto è subito saltato agli occhi anche a lui. «Sì, quello che stanno vivendo la Juventus e i suoi dirigenti sembra avere tutti gli stilemi di un processo mediatico. E come accade in queste vicende, le notizie riflettono solo la fase delle indagini preliminari, una fase nella quale domina la tesi dell’accusa. Nel caso della Juventus le informazioni divulgate dai media sono tratte dall’ordinanza cautelare, atto adottato dal gip su richiesta degli inquirenti senza confronto con la difesa. E oltretutto da un’ordinanza nella quale il Gip ha rifiutato di disporre le misure richieste. È chiaro che la prima vittima è la presunzione di innocenza, oltre che il diritto alla difesa: gli indagati diventano automaticamente presunti colpevoli o colpevoli in attesa di giudizio. L’esito del dibattimento - che arriverà dopo diversi anni - interesserà poco ed anche in caso di assoluzione la liquidazione anticipata dei diritti, onore e reputazione, non sarà mai risarcita».

Il problema principale sono le intercettazioni pubblicate indiscriminatamente?

«Purtroppo e’ una prassi deprecabile quanto diffusa quello della divulgazione delle intercettazioni, e in particolare delle conversazioni telefoniche nelle quali si formulano spesso valutazioni e opinioni personali, si utilizza spesso un linguaggio diciamo prosaico o magari vernacolare, si intesse una narrazione che rende la realtà in modo iperbolico, spesso distante dai fatti. Il codice disciplina le intercettazioni tra i mezzi di ricerca della prova, ma una volta divulgate diventano prove agli occhi dell’opinione pubblica, anche se non lo sono affatto. Nel processo penale la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio tra accusa e difesa, dove si verifica se il contenuto dell’intercettazione corrisponde a verità, magari inserendola in un contesto più ampio, accostandola ad altre telefonate e via dicendo».

Si assiste, invece, a una generosa diffusione di frammenti di conversazione.

«Abbiamo esempi innumerevoli che un’intercettazione inserita in un contesto assume un significato completamente diverso. Se poi viene diffusa in modo arbitrario, scegliendo ciò che più può provocare curiosità, sconcerto o indignazione, se ne stravolge ancora di più l’utilizzo, creando una verità istantanea che non corrisponde alla verità processuale, ma tende solo a gettare un’ombra negativa sugli indagati così corroborando la tesi dell’accusa in chiave colpevolista. Ma le tesi di accusa, quando inizia un processo, sono solo ipotesi. La verità processuale è lenta, è fatta di un percorso di ricostruzione lungo e faticoso, che deve rispettare regole e garanzie per ridurre il rischio di errori giudiziari».

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Il processo mediatico si può evitare?

«E’ un problema culturale, bisognerebbe avere molto più rispetto dei diritti di chi è indagato, che la Costituzione presume innocente sino a sentenza definitiva. E Bisognerebbe avere consapevolezza che il processo mediatico è trainato dall’interesse del pubblico, dallo share, da fattori condizionanti che lo curvano, ne distorcono la verità. Anche se, come ho anticipato, non voglio entrare nel merito della vicenda della Juventus».

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C’è, però, qualcosa dell’inchiesta torinese che l’ha colpita nella chiave dell’analisi del processo mediatico?

«Forse che il processo di cui stiamo parlando ha a che fare anche con valutazioni tecnico-contabili e altri dati estremamente tecnici, suscettibili di valutazioni potenzialmente molto diverse. Quindi la diffusione delle intercettazioni può essere ancora più fuorviante perché il cuore del processo, probabilmente, sarà altrove».

La pubblicazione delle intercettazioni viola la legge?

«Purtroppo dopo che l’ordinanza di custodia cautelare viene consegnata agli indagati cade la segretezza del contenuto, il cosiddetto segreto interno. L’atto in sé resta non pubblicabile, ma per una regola tanto stravagante quanto ipocrita non lo è il suo contenuto che si può pubblicare con i soliti espedienti».

Come ci si può difendere nel processo mediatico?

«Negli Stati Uniti moltissimi processi che hanno grande evidenza mediatica vedono la presenza di avvocati che si occupano esclusivamente di quello, per fronteggiare le ricadute mediatiche. Ormai è un fenomeno molto diffuso e studiato: in Spagna viene definitivo “processo parallelo”, in Germania “preprocessi pubblici”. Ed è’ un fenomeno sempre più grave negli ultimi dieci anni, per la moda dei talk show e l’esplosione dei social network, luoghi dove si celebra il processo parallelo, che poi finisce per condizionare il giudizio finale».

In che modo?

«Sorto diversi aspetti. Personalmente, non credo che chi deve giudicare riesca a conservare la propria indipendenza valutativa - e tanto meno la propria verginità cognitiva - dopo una massiva campagna mediatica. Il giudice è un uomo e, in quanto tale, dotato di una coscienza che non può non essere influenzata anche in modo inconscio da quello che ascolta o vede fuori dall’aula processuale. Nel suo bagaglio cognitivo finiscono inevitabilmente per esserci degli elementi del processo mediatico che possono influenzarlo. E poi, quando si è formato un fronte colpevolista nel pubblico e sui media, il giudice e’ fatalmente stretto in una morsa, e sarà chiamato a dire da che parte sta: se dalla parte dell’opinione pubblica o dalla parte di imputati che la vox populi giudica già colpevoli».

E quali altri effetti può avere il processo mediatico?

«Ogni avvocato che ha esperienza di vicende analoghe ha visto storie personali e familiari, destini politici o imprenditoriali devastati dai processi mediatici. Anche se magari dopo quattro o cinque anni, il processo finisce nel nulla. Questo è il dato che dovrebbe fare maggiormente riflettere».

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Vittorio Manes è professore di Diritto penale all’Università di Bologna, è un noto avvocato e a maggio ha pubblicato un libro che sembra la cronaca di questi giorni: si intitola “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo”. Contiene una profonda analisi di quanto i mass media possano inquinare l’iter giudiziario e violare in modo grave il principio della presunzione di innocenza e i diritti fondamentali. Il modo in cui i media stanno trattando l’inchiesta della Procura di Torino sulla Juventus ne è un esempio lampante e di clamorosa attualità: «Vero, ma non voglio assolutamente entrare nel merito della vicenda, per rispetto degli inquirenti e degli indagati. Non commento i processi nei quali sono coinvolto da avvocato, a maggior ragione quelli di cui ho poche o nulle informazioni», spiega Manes. Ma il problema di diritto è subito saltato agli occhi anche a lui. «Sì, quello che stanno vivendo la Juventus e i suoi dirigenti sembra avere tutti gli stilemi di un processo mediatico. E come accade in queste vicende, le notizie riflettono solo la fase delle indagini preliminari, una fase nella quale domina la tesi dell’accusa. Nel caso della Juventus le informazioni divulgate dai media sono tratte dall’ordinanza cautelare, atto adottato dal gip su richiesta degli inquirenti senza confronto con la difesa. E oltretutto da un’ordinanza nella quale il Gip ha rifiutato di disporre le misure richieste. È chiaro che la prima vittima è la presunzione di innocenza, oltre che il diritto alla difesa: gli indagati diventano automaticamente presunti colpevoli o colpevoli in attesa di giudizio. L’esito del dibattimento - che arriverà dopo diversi anni - interesserà poco ed anche in caso di assoluzione la liquidazione anticipata dei diritti, onore e reputazione, non sarà mai risarcita».

Il problema principale sono le intercettazioni pubblicate indiscriminatamente?

«Purtroppo e’ una prassi deprecabile quanto diffusa quello della divulgazione delle intercettazioni, e in particolare delle conversazioni telefoniche nelle quali si formulano spesso valutazioni e opinioni personali, si utilizza spesso un linguaggio diciamo prosaico o magari vernacolare, si intesse una narrazione che rende la realtà in modo iperbolico, spesso distante dai fatti. Il codice disciplina le intercettazioni tra i mezzi di ricerca della prova, ma una volta divulgate diventano prove agli occhi dell’opinione pubblica, anche se non lo sono affatto. Nel processo penale la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio tra accusa e difesa, dove si verifica se il contenuto dell’intercettazione corrisponde a verità, magari inserendola in un contesto più ampio, accostandola ad altre telefonate e via dicendo».

Si assiste, invece, a una generosa diffusione di frammenti di conversazione.

«Abbiamo esempi innumerevoli che un’intercettazione inserita in un contesto assume un significato completamente diverso. Se poi viene diffusa in modo arbitrario, scegliendo ciò che più può provocare curiosità, sconcerto o indignazione, se ne stravolge ancora di più l’utilizzo, creando una verità istantanea che non corrisponde alla verità processuale, ma tende solo a gettare un’ombra negativa sugli indagati così corroborando la tesi dell’accusa in chiave colpevolista. Ma le tesi di accusa, quando inizia un processo, sono solo ipotesi. La verità processuale è lenta, è fatta di un percorso di ricostruzione lungo e faticoso, che deve rispettare regole e garanzie per ridurre il rischio di errori giudiziari».

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