Non chiamiamola giustizia se non ha i principi del diritto

L’intervento dell’ex magistrato Calabrò: "Si è trattato di un atto unico in cui la difesa, di fatto, non ha potuto replicare"

Non è sinceramente agevole, per chi ha masticato e celebrato diritto e giustizia per decenni, comprendere e commentare quel che è maturato, nelle menti dei componenti della Corte d’Appello Federale nello spazio di poche ore, quel nerissimo venerdì 20 gennaio 2023. Questa data deve essere ricordata non solo da chi si occupa di calcio, ma anche e soprattutto da coloro che ancora vedono nella Giustizia (quella vera, quella con la G maiuscola) il momento di equilibrio tra rispetto delle regole e adeguatezza delle sanzioni e delle procedure, tra la necessità di reprimere le violazioni e la doverosità del chiaro loro accertamento. Possiamo dire che questi principi basilari siano stati osservati e rispettati dalla Corte e dalle procedure che la stessa ha rigidamente voluto interpretare? Prima di dare una risposta al quesito, è opportuno rammentare alcuni aspetti grotteschi di questa vicenda giudiziaria. Innanzitutto, siamo passati da un processo già chiuso e che solo la Procura Federale avrebbe potuto chiedere di riaprire (quindi, con una Corte Federale impossibilitata ad agire motu proprio), ad un appuntamento giudiziario - dedicato in primis a verificare tale possibilità - trasformato in un vero e proprio processo (anche) di merito, celebrato sostanzialmente in grado unico e senza la reale possibilità per le parti accusate di porre in essere una seria attività difensiva (ad esempio, fornire prove per testi o per altra via contrarie a quelle dell’accusa). Non solo, ma in questo contesto kafkiano l’organo giudicante si è dimostrato “più realista del re”, quasi raddoppiando le sanzioni richieste da quella Procura che, come ho sottolineato, avrebbe anche potuto non attivare il potere della Corte di riaprire i giochi.

Senza scomodare Cicerone, è proprio il caso di ricordare che, quando chi giudica si avviluppa alle sole norme e misconosce i diritti dell’accusato, finisce per celebrare il funerale della giustizia (summum ius, summa iniuria). Se, pertanto, definire sommario questo modo di procedere è quantomeno un vero eufemismo, non meno sconcertanti sembrano essere tutte le riflessioni che, in attesa del deposito della motivazione, al momento si impongono. La Procura Federale, pur avendo la possibilità di attendere il deposito degli atti da parte dei PM di Torino e, quindi, di avere un quadro completo di tutte le “carte” a disposizione della magistratura ordinaria, ha invece operato la scelta di deferire la Juventus ed altri club già il giorno 1 aprile 2022, vedendo respinte le proprie richieste da Tribunale e Corte d’Appello FIGC. Le intercettazioni erano già esistenti a quell’epoca ma il Procuratore Federale, che non ne ha voluto attendere il deposito, dopo soltanto alcuni mesi le ha ammantate della qualifica di “nuove prove”, in tal modo ponendo in essere, con l’assenso della Corte, una incredibile e surreale forma di “giustizia rateale”, che proprio il giudice sportivo avrebbe dovuto dichiarare inammissibile, in quanto apertamente contrastante non solo con il principio “ne bis in idem” (non posso essere giudicato due volte per gli stessi fatti), ma soprattutto con i più elementari cardini della disciplina processuale.

Tutto ciò è ancor più paradossale alla luce di due indiscutibili circostanze: a) la giustizia ordinaria non ha ancora accertato se e come siano state perpetrate dal club Juventus e dai suoi dirigenti violazioni delle leggi e delle regole attinenti i bilanci; b) nel processo penale, tantomeno nella fase delle indagini del PM, le intercettazioni non hanno il valore di prove ex sé processualmente rilevanti, dovendo essere integrate da altri accertamenti e riscontri.

Venendo, invece, ai possibili motivi di merito che avrebbero indotto la Corte d’Appello Federale ad applicare sanzioni pesantissime, dopo aver invece statuito che le plusvalenze non potrebbero essere sanzionate in assenza di precise e puntuali norme destinate a regolarle, viene il lecito sospetto che l’organo giudicante, non potendo certo (nella totale assenza di novità normative) mutare opinamento sul punto, abbia invece ritenuto come violato l’art. 4 del Codice di Giustizia Sportiva per inosservanza dei “principi di lealtà, della correttezza e della probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva”. A prescindere dalla circostanza che, anche su tale presunta violazione, gli accusati avrebbero dovuto essere messi in condizione di svolgere attività difensive, è evidente che la palese genericità di una simile previsione attribuisce al giudicante un potere di fatto incontrollabile e, soprattutto, la potestà di irrogare alle parti accusate (società e tesserati) sanzioni che variano dal semplice buffetto alla morte sportiva e/o professionale. Se le punizioni più pesanti possono variare da “uno o più punti in classifica” senza alcun limite massimo e senza la tipizzazione di qualsivoglia criterio distintivo tra una violazione e un’altra ovvero una “inibizione temporanea” da 1 giorno a 5 anni, è del tutto palese la sproporzione tra i poteri del giudicante e i diritti (non) concessi alla difesa. E se chi giudica si comporta come se questa situazione non lo riguardasse, si sconfina nel campo dell’arbitrarietà e, pertanto, della negazione di quei principi del “giusto processo” che, essendo ora recepiti nella nostra Costituzione, non possono essere disattesi neppure da chi rivendica l’autonomia dell’ordinamento sportivo. Non è solo il club Juventus a subirne le dure conseguenze, ma lo sono persone che si vedono stroncare carriere costruite con anni di sacrifici (30 mesi di inibizione sono un vero ergastolo nel mondo veloce dell’attuale calcio professionistico). A tutte queste innegabili ingiustizie può e deve porre rimedio, al più presto, il Collegio di Garanzia del CONI, al di là dei limiti di natura formale che regolerebbero le sue competenze e che lo stesso ha dimostrato di saper interpretare nel giusto modo in precedenti e recenti occasioni. Ove, per denegata ipotesi, ciò non dovesse accadere, si legittimerebbe il potere della parte accusatrice di gestire a proprio piacimento i tempi e le modalità del processo sportivo, in violazione di quei principi di certezza che devono necessariamente presiedere il diritto e la sua applicazione.

*EX MAGISTRATO

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