Evoluzione e rivoluzione: giù le mani dalla Juventus di Thiago Motta

Una narrazione squilibrata e senza memoria, vecchia e superata, che vuole tutto e subito, identica alle isterie social giovanili tanto condannate. E un capolavoro a cui è chiamato il nuovo tecnico bianconero

Sentire da vecchi pulpiti iniziare a chiedere a Motta di vedere una squadra brillante, dominante, capace di sovrastare ogni avversario dopo essere arrivato da qualche mese e aver giocato sei partite è l'equivalente generazionale dell'isteria social giovanile che senza pazienza si dispera a ogni errore o si esalta senza freni per un risultato positivo. La Juventus è in formazione, in creazione, in fieri, un progetto di gioco che ha già meccanismi evidenti: la squadra spinge in avanti, pressa in maniera sistematica, il possesso palla non è mai un girare il pallone fine a sé stesso. E come gioco, con tutto il rispetto per l'Allegri pastore di uomini e maestro di gestione dello spogliatoio, siamo già anni luce rispetto a quello che avveniva tatticamente negli anni del secondo ciclo di Max. In maniera davvero troppo evidente per negarlo.

La Juventus è solida, al momento addirittura insuperabile, come da grande tradizione bianconera anche senza parlare di BBC o del Trap, e se si alza il ditino sugli 0-0 con l'Empoli e il Napoli bisogna anche avere il coraggio di ricordarsi che a Empoli si era arrivati anche a prenderne quattro, per non parlare della cinquina di babbà partenopei colorati di scudetto e di altre sconfitte. La serenità con cui si esce palla a terra dal pressing offensivo senza apprensioni o calcioni in avanti, "che puntiamo il portiere che poi qualcosa succede", solo qualche mese fa a Torino era catalogabile alla voce 'fantasie proibite', da poter apprezzare solo guardando altre squadre continuandosi a chiedere come mai non se ne potesse godere anche allo Stadium.

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Locatelli fulcro e simbolo. Motta incide anche sul bilancio

Fulcro e simbolo di questa rivoluzione lampo Manuel Locatelli: centrocampista restituito al suo ruolo e al suo talento con chiarezza di compiti e responsabilità, diventato indispensabile dopo essere stato massacrato dalla critica in anni bui di medioevo tattico, sempre più indispensabile padrone di manovra. La stessa che Spalletti ha rivalutato, cambiando dopo il flop Europeo, e chissà che il ct non ripensi a Loca azzurro dopo il taglio doloroso pre euro.

E occhio, questa nuova gestione Motta inizia a essere pesante anche a livello societario e di bilancio: sembra già preistoria nel turbocalcio di oggi ma la rosa Juve consegnava la scorsa estate a questo allenatore giocatori tanto demineralizzati in campo quanto svalutati nel cartellino, con i peana a destra e sinistra su quanto fossero di basso valore, inadatti al vertice, scarsi per non girarci attorno. E invece palla a terra e ci si ritrova Gatti, Bremer, Cambiaso, il sopracitato Locatelli, Weah e Yildiz che come minimo stanno overperformando rispetto all'anno scorso, per restare cauti. Con ragazzini come Mbangula e soprattutto Savona decollati in termini di prestazioni e valutazione.

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La questione Vlahovic: Motta chiamato al capolavoro

Ma questi meccanismi sopracitati, che si vedono e si intravedono, hanno bisogno del tempo giusto per essere oliati, per diventare automatismi, per creare quell'alchimia che tanto ha affascinato e funzionato a Bologna portando i rossoblù a un'impresa storica chiamata Champions. E sì, c'è un problema gol che non può attendere, che ovviamente va a finire sull'uomo chiamato a farle le reti, la questione Vlahovic. Parliamo di Dusan, sì, e dell'abbandono mentale che Thiago si è trovato di fronte, costretto a recuperare un attaccante con un talento pazzesco ma con una fragilità psicologica palese, fatta di sfoghi isterici in campo al primo fischio contro dell'arbitro o al primo fallo subito e non fischiato, che tutti vedevano mentre gli si chiedeva di essere decisivo, totale e mentalizzato come il più esperto dei bomber, dimenticandosi di quanto quella montagna di muscoli e quel sinistro che tutto poteva avesse bisogno di essere sgrezzato soprattutto di testa.

Aiutato, semplicemente, perché Dusan è ed era già quello degli attributi "grandi così", sempre per chi dovesse avere problemi di memoria. E quella fascia al braccio, consegnatagli alla prima partita della nuova era bianconera nel ritiro blindato del centro Adidas a Norimberga, era il primo passo di una ricostruzione che all'orizzonte è il capolavoro a cui è chiamato socraticamente Thiago Motta, chiamato a tirar fuori da dentro al serbo la fame del gol, risvegliarne l'istinto e il fiuto attraverso l'insegnamento dei movimenti, dei fondamentali dell'astuzia e del cinismo. Perché è solo di quella fame, ricordando un eroe che mescolò realtà e fantasia di tutto un popolo come Totò Schillaci, che si nutre il bomber. E Motta dovrà farlo non con le parole, di cui il tecnico è decisamente parsimonioso come dimostra in conferenza stampa, ma con i fatti, consapevole che sul centravanti si gioca il destino suo e della Juventus. Che è sempre chiamata a vincere, al di là dei proclami - o di passate sottostime - che affossano solo il morale di una squadra che ha scritto nel DNA il dovere di crederci.  

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Sentire da vecchi pulpiti iniziare a chiedere a Motta di vedere una squadra brillante, dominante, capace di sovrastare ogni avversario dopo essere arrivato da qualche mese e aver giocato sei partite è l'equivalente generazionale dell'isteria social giovanile che senza pazienza si dispera a ogni errore o si esalta senza freni per un risultato positivo. La Juventus è in formazione, in creazione, in fieri, un progetto di gioco che ha già meccanismi evidenti: la squadra spinge in avanti, pressa in maniera sistematica, il possesso palla non è mai un girare il pallone fine a sé stesso. E come gioco, con tutto il rispetto per l'Allegri pastore di uomini e maestro di gestione dello spogliatoio, siamo già anni luce rispetto a quello che avveniva tatticamente negli anni del secondo ciclo di Max. In maniera davvero troppo evidente per negarlo.

La Juventus è solida, al momento addirittura insuperabile, come da grande tradizione bianconera anche senza parlare di BBC o del Trap, e se si alza il ditino sugli 0-0 con l'Empoli e il Napoli bisogna anche avere il coraggio di ricordarsi che a Empoli si era arrivati anche a prenderne quattro, per non parlare della cinquina di babbà partenopei colorati di scudetto e di altre sconfitte. La serenità con cui si esce palla a terra dal pressing offensivo senza apprensioni o calcioni in avanti, "che puntiamo il portiere che poi qualcosa succede", solo qualche mese fa a Torino era catalogabile alla voce 'fantasie proibite', da poter apprezzare solo guardando altre squadre continuandosi a chiedere come mai non se ne potesse godere anche allo Stadium.

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