Dai primi allenamenti con la Juve, a 18 anni, al pensiero stupendo di un ritorno. In mezzo, 19 stagioni in maglia bianconera e poi 12 anni e mezzo in giro per il mondo, senza più quella maglia fisicamente addosso, ma con quei colori impressi sulla pelle e nell’anima. Alessandro Del Piero poche settimane fa ha raccontato il suo passato e provato a immaginare il suo futuro a Kickin’it, trasmissione della Cbs (emittente statunitense di cui Del Piero è opinionista) condotta da Kate Abdo con gli ex calciatori statunitensi Clint Dempsey e Charlie Davies. Un lungo botta e risposta (se sapete l’inglese lo trovate integrale su Youtube) che vi riassumiamo nel giorno del 50° compleanno di Pinturicchio. Già, Pinturicchio...
L'inizio
«È il soprannome che mi dette il proprietario della Juve (Gianni Agnelli, ndr), una persona incredibile. Gli piaceva inventare soprannomi. Baggio per esempio per lui era Raffaello. Quando io mi affacciai sulla scena, tirò fuori un altro pittore, Pinturicchio. Alla Juve arrivai a 18 anni e iniziai ad allenarmi con gente come Baggio, Vialli, Kohler, Moeller, Peruzzi... Fino a pochi giorni prima li vedevo in tv. La prima settimana fu così e così, alla seconda mi sono detto: “Ehi, posso combinare qualcosa qui: devo imparare molto, ma posso farcela”. Il primo anno è stato duro, in generale. Era l’ultimo anno di Trapattoni, un mito. Finimmo in basso in classifica, fummo eliminati dal Cagliari in Coppa Uefa perdendo 3-2 in casa, i tifosi criticavano. A fine anno però tante cose cambiarono: nuovo allenatore, nuova dirigenza, nuova squadra. Ripartimmo da zero. Io ho imparato da tutti. Da Baggio, ma non solo. Con Baggio c’è stata una situazione particolare. Abbiamo giocato assieme due stagioni e nella seconda c’erano frizioni tra il club e lui, che a fine stagione se ne andò. Ho imparato da tutti perché ascoltavo e mi trovavo nel miglior posto possibile. Ero curioso, domandavo, guardavo cosa facevano, come interagivano l’uno con l’altro, come giocavano la domenica dopo quello che avevano fatto durante la settimana. Analizzavo tutto e poi sceglievo: ok, probabilmente in quella situazione quel compagno si è comportato nel modo giusto. E poi mixavo tutto questo con la mia mentalità. Ero parte del gruppo e loro non si arrabbiavano mai per i miei errori, probabilmente perché vedevano l’impegno che mettevo in ogni cosa».